Mimmo Di Marzio, I polittici dell’inconscio, catalogo della mostra, Palazzo Frisacco, Tolmezzo (Udine).
Quale filo sottile e misterioso lega la lotta primitiva tra due zebre della savana all’incendio catastrofico di un traforo autostradale? Cos’hanno in comune il crollo apocalittico delle torri gemelle con le spire tentacolari di una piovra? A quale oscuro rebus allude la giustapposizione per piani simmetrici di un bulbo oculare, un deserto artico e inquietanti presenze uscite da un laboratorio nucleare? L’intera opera di Andrea Zucchi, esponente senza dubbio assestante nel panorama della nuova pittura italiana, ha la peculiarità di fondare la propria poetica su un perenne spiazzamento visivo, anche se sarebbe più corretto parlare di sfasamento temporale. Pressoché impossibile tentare una visione unica, simultanea di ogni suo singolo lavoro.
Il disorientamento costante entro il quale Zucchi intrappola lo spettatore avviene su più livelli. Il primo, quello dei contenuti, è di certo il più apparente ma non per questo l’unico in grado di tradurre l’aura misterica che discende dalla rappresentazione. I contenuti vengono accostati secondo codici assolutamente a-narrativi e, in questa splendida inconsapevolezza, l’artista ripropone scientificamente discrasie poetiche proprie del grande surrealismo. Quello cioè che fece pronunciare al poeta Comte de Lautrèamont il fatidico motto: “Che bello, è bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, volendo cioè tentare di spiegare quel fascino volatile e irresistibile che proviene dall’accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano “che in apparenza non è conveniente per esse”. La prima mossa Zucchi la compie in questa direzione, vale a dire procedendo per libera associazione di idee, creando coabitazioni improbabili di storie e immagini che non hanno nulla in comune ma da cui ricavare sensazioni inedite. Siamo cioè assolutamente distanti, almeno in superficie, da velleitarismi concettuali ma, tutt’al più, la materia prima compositiva sembra direttamente sgorgare da quell’ “automatismo psichico” tanto caro a Breton: quello cioè “dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale, ma che esprima verbalmente o in qualunque altro modo il funzionamento reale del pensiero”.
Il secondo livello di spiazzamento si verifica su un piano strettamente formale. Per i suoi excursus metafisici, l’artista utilizza infatti il linguaggio estetico corrente di quel nuovo realismo che ha portato in questi anni la pittura a percorrere territori propri di altri media, dalla fotografia al video, dalla pubblicità a internet.
All’interno di una poetica che vede spesso l’arte assurgere a freddo testimone di una realtà sempre più mescolata e confusa alla fiction e comunque filtrata da modelli linguistici ormai geneticamente mutati dai media, Zucchi attua un ulteriore, drammatico, spostamento percettivo producendo una figurazione apparentemente realistica ma che sul piano narrativo si manifesta secondo un linguaggio analogico tipico del sogno. Tutte le immagini assumono così una valenza simbolica, ma secondo i codici irrazionali dell’inconscio. Così è anche – o forse soprattutto – per gli elementi naturalistici così ricorrenti nelle sue opere. Con l’iconografia della natura, finanche nei suoi caratteri più estremizzanti, l’artista sembra infatti voler intrattenere un dialogo serrato, direi quasi archetipico.
Ma la sua figurazione è al contempo assolutamente in-naturale, quasi che l’artista intenda con la pittura trasfigurare la realtà ma non negarla. Nelle sue composizioni, ma che sarebbe più onesto definire contragiustapposizioni, il naturalismo prende la forma di “Arte naturale” come esempio particolare di applicazione del pensiero junghiano all’arte, dove il principio fondamentale è il contatto ispiratore con la Natura e l’incontro casuale con le sue forme. All’interno dell’universo archetipico-onirico, non sorprende l’accostamento che l’artista compie tra gli elementi della natura (contemporaneamente madre generatrice e matrigna), il materiale psichico della quotidianità e della cronaca – spesso tratto direttamente dalla globalizzazione mediatica – e infine il mito che talora si rivela in forme inquietanti. Emblematica, in tal senso, l’opera che compone lo Pseudo polittico e che presenta come figura centrale una maschera funeraria egizia.
Il mondo egizio, esoterico per eccellenza, è non a caso ricorrente nell’opera di Zucchi. Nel mito, l’enigma della Sfinge è simbolo di iniziazione a disposizione di ogni uomo che voglia vedere in faccia “il suo ospite misterioso”; è cioè Guardiano della Soglia che invita a entrare e al contempo preclude minacciosamente la strada. Umana e leonina, di entrambi i sessi, Sfinge rappresenta l’androgino, ovvero la congiunzione degli opposti in una splendida sintesi esoterica.
Ma la forza decontestualizzante delle forme, dei contenuti e dei codici narrativi lascia spazio nell’opera ad un terzo livello in cui lo spiazzamento percettivo avviene lungo canoni più strettamente linguistici. Ovvero l’artista racchiude il suo “marasma proustiano” all’interno di un ordine compositivo strutturalistico, geometrico che impone un rigore ed un’essenza per così dire mentale al mondo sensibile rappresentato. Le griglie neoplaticistiche segmentano le immagini come strade parallele riconducibili al proposito di non ricreare il reale ma quasi di negarne la singolarità e l’individualità, cercando di razionalizzarlo. Come se strutture superegoiche intervenissero con il rigore della negazione a compiere tabula rasa dell’emozione tracimante e incontrollabile dei sentimenti perché diretto prodotto – non filtrato – dell’inconscio collettivo.
E così, l’altra anima dell’artista (verrebbe da dire, il Mondrian che c’è in Zucchi) sente l’urgenza irrefrenabile di un controllo – di non perdere il controllo –, in una scientifica opera dei razionalizzazione del mondo sensibile, per ridurlo invano a geometria e a lontana reminescenza di astrazione.