Marco Vallora, Un buco nella vasca del mondo, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Galleria Arte & Altro – Grossetti, Milano.
Un buco nella vasca del mondo conoscere: quei maestri minori fiorentini novecenteschi dell’epoca di Margherita Sarfatti, che parevano giˆ allora di retroguardia, cui i Soffici e i Rosai guardavano con sufficenza, ma avevano una perizia de-
Appunto strappato da un taccuino. “Oggi ho scoperto un giovane artista che fa della pittura anni Quaranta”. Anzi, ho visto dei bellissimi Carena, degli Italo Cremona, dei Bacci, ma fatti oggi. “Scoperto”: che parola esagerata. Me l’ha consigliato un amico al telefono, ha detto: Òguarda tuÓ. Sono andato a vederli, questi quadri di cui ero completamente all’oscuro. Per certi versi meglio: come quando entri in un cinema, non vuoi sapere nulla di quello che ti capiterˆ. Ti basta il titolo, non vuoi sapere nemmeno se sarˆ una commedia, un filmaccio, al massimo il titolo, se non hai la ventura di conoscere giˆ il regista. Ma ancora meglio cos“, meglio non sapere, non leggere nulla prima, le critiche, gli amici che vorrebbero raccontarti un pezzettino di trama. Guai! Ma coll’andare a vedere quadri diverso. C’ sempre quel momento d’imbarazzo, di vuoto, hai l’artista davanti a te, metafisicamente ti si para persino davanti ai quadri stessi, come un golfino protettivo…te li vorrebbe sfornare caldi: e tu sai che ad un certo punto dovrai pur dire qualcosa. E le parole sono sempre stupide: bello, ah, si, bello, interessante, di che anno?
Ritorno all’appunto giˆ tracciato allora, sul momento: ho ÒscopertoÓ. Si, forse pensavo a qualcosa di diverso. Nel salotto stanno quelli pi antichi, giochi al bersaglio con Bacon e come viatico scritte in latino, confondi subito Ovidio con Virgilio, Tasso con Foscolo. Abitati da fantasmi ossessivi, vivisezionati, sanguinanti dettagli ed incubi.
Sono racconti imbanditi per la pittura, oppure sono ossessioni di un diario personale? “Sinceramente”, dice il pittore, “io non so dove li vado a trovare. Io che mi sento un assasino ad usare persino degli zampironi”. Non nemmeno che riversi sulla tela il brodo primitivo del proprio romanzo onirico: trasceglie, incolla, seziona. Monta. Una pausa.
No, grazie, il caff non lo prendo mai. Passiamo di lˆ. Ad un tratto hai l’impressione felice di affondare impercettibilmente, voluttuosamente, come dentro una piscina termale, d’inciampare fortunosamente in una vasca romana e sprofondarci dentro, beato. Quella donna come impregnata, imperlata del sudore al cloro d’una pittura che addormenta i sensi, la cuffia che ottunde tutti i suoni, che spegne la vita.
E fa bene, concilia questo silenzio che ci rinserra nei quadri. “Scoperto”, dicevo: ecco perchŽ meglio lavorare tutto solo sugli appunti, nessuno ti sta guardando nella testa, nessuno in ascolto, hai ancora tempo di manipolare le tue prime impressioni. Nemmeno l’artista in agguato, sono sempre cos“ apprensivi per quanto li concerne: la veritˆ che il testo in realtˆ vorrebbero scriverselo loro, e magari che tu gli impresti soltanto un poÕ di pazienza e un poÕ di scrittura. Sono tutti cos“, ormai lo sai, ed anche comprensibile. (Come quando consegni il compito di un tuo pezzo alla scrivania di qualsiasi committente. Ma almeno noi non abbiamo immagini da vendere). Si, sono sempre in difficile equilibrio davanti a te, gli artisti. Ma non sarebbe ora di finirla di avere questa soggezione per le Parole? E poi ormai lo sai, sei abituato, guai: con un pittore citargli qualche altro artista, qualche riferimento, qualche appiglio che ti fa comodo: non c’ nulla da fare, la prendono subito male. Sembra di toglier loro qualcosa della loro originalitˆ. Pensare che per noi, per il nostro pensiero in lentigrada marcia, cos“ comodo gettare le reti rassicuranti dei confronti, dei legami. é come puntare il compasso: ma si sa, le punte feriscono.
Adesso che Lui non c’, che so non mi sta leggendo, mi va benissimo di dire per esempio, che un pittore Anni Quaranta ma di oggi. Anni Quaranta, Trenta? Non importa: mi piace quest’atmosfera fuori del tempo, un poÕ vecchiotta, imbalsamata, questo silenzio che lo toglie dalla modernitˆ. Se non suonasse magari un poÕ riduttivo, la chiamerei de-modernitˆ, che avrˆ pure anche una sfumatura come di “dŽmodŽ”, ma che secondo me funziona qui molto meglio che non post-modern. Togliere modernitˆ, invece di assommare.
Si direbbe proprio che un nuovo fascismo costringa il nostro artista a intabarrarsi ermeticamente (la parola pu˜ essere usata in doppia accezione) dentro i suoi quadri, a chiudere le tapparelle della modernitˆ: e questo mi va molto bene. Anche se dentro i suoi Fantin-Latour o i suoi Vallotton (quei sessi rosati delle conchiglie dalle grandi bocche procaci, quello squillare lucidato del sorriso del bambino, fiero della sua ciliegia, e come sottratto al ritaglio obbligato della sua sacra pala d’altare) ebbene, dentro quei mondi passati penetrano talvolta anche delle spine elettriche, che so, degli elettrodomestici, in questa sorta di Et in Arcadia Ego au bord de la mre delle sue marine da tavolo. Ma sono delle prese elettriche diverse da quelle che possono ossessionare il mondo concentrazionale di Ferroni, o quello placentare di Cremonini, dei pop alla Larry Rivers.
In Zucchi, anche questi reperti del moderno sono delle spoglie, degli inutili orpelli di una realtˆ che non vive pi.
Un pittore degli anni Trenta di oggi. Non ti sembra avere un senso questa definizione? PerchŽ proprio su questa curiosa dialettica-paradosso, che bisognerebbe lavorare. Come definizione nulla gli toglie, appunto, di quella sua strana modernitˆ: provocatoria, anzi. Ecco, questo dovr˜ proprio dirlo, da qualche parte: per fortuna Zucchi non ha nulla dei citazionisti, degli anacronisti, non mi ricordo pi nemmeno bene se si chiamano cos“. No, se lo confronto infatti a quelli terribili esposti all’ultima Biennale mi pare proprio che lui si salvi. Sarˆ difficile spiegare come, ma direi che abbia poco a che spartire con i pupilli stanchi di Calvesi e Portoghesi. Tutt’al pi potrebbe tornarmi in mente Lily Salvo, su cui ho scritto anni fa. Devo cercare quel catalogo: avr˜ il coraggio di mostrarlo a Zucchi per vedere come reagisce? Sono peggio dei cani i pittori tra loro: non sai mai cosa succederˆ nel giardino dei loro umori. Un pittore del realismo magico ma di oggi. Proviamo questa formula. Ma poi, anche qui: ho pensato piuttosto a Carena, a Cavalli, al primo Guidi, a Trombadori, a Donghi, certe atmosfere ovattate, un po soffocate, impedite di parlare. Detto cos“ a lui, in faccia, suonerebbe forse offensivo, posso capirlo. Peggio ancora in una presentazione: ma perch avere sempre cos“ tanta paura delle parole, delle categorie storiche, delle definizioni! Tanto valeva allora non prendere nemmeno in mano il computer. E poi, soprattutto, non ci vuol essere in me alcun intento denigratorio. Ovviamente. Anzi. Io non riesco che a guardarlo da quest’ottica, Zucchi e mi sembra semmai una qualitˆ, una caratteristica davvero felice, originale, poco consueta. Potrei quasi chiedergli se ci sta, se d’accordo: cos“ se la definizione (che parola grossa: andava anche benissimo: “la cosa”), insomma, se quest’idea lo mette in sospetto, meglio cos“, chiudiamo subito il rubinetto delle parole e la smettiamo d’inseguirci.
Perch in fondo il Cosiddetto Critico non fa altro: insegue disperatamente l’immagine, le Figure, cercando di dare un senso. E spesso l’artista non si riconosce. Dovr˜ appunto spiegare questo senso non dell’antico, che dei citazionisti, ma del vecchiotto del de-moderno, che poi pu˜ anche benissimo risultare una sorta di fantascienza all’incontrario, una science fiction dell’antico.
E mi interessa proprio perch poi questo cotŽ antico, diciamo cos“, para-mitologico, iconologico per lo meno, quasi, viene messo a reagire con il nostro convulso mondo di oggi, telefonini, aerei, ritardi, i pesi per tenersi in forma e non rischiare la palestra.
Una pittura chiusa in casa. Questa formula ‘autarchica’ non mi dispiace: bisognerˆ lavorare in questa direzione. Mi piace soprattutto la tecnica di Zucchi: quel torpore un poÕ minerale del colore, quel color terra che sale sino al cielo, un clima un poÕ di peltro, di pegamoide, come quando entri in una stanza che conosci bene, non hai voglia di accendere la luce, le insegne di fuori gettano un poÕ di riverbero e riconosci comunque lˆ, sulla cassapanca finto cinquecento, il cave-liqueur della nonna: forse un vedere virtuale della memoria, gli occhi non si sono nemmeno schiusi. Ed un leggerissimo sentore di bicchieri che sono rimasti troppo a lungo nell’armadio: non viene pi nessuno davvero a trovarci, in questa casa!
Dunque, proviamo a pensare forte: mi piace questa materia permeabilmente impermeabile, dirlo cos“ sembra una eleganza un poÕ gongoresca, un poÕ arzigogolata, ma vorrei riuscire a spiegare questa sensazione strana. La pelle lucida, luminosa, quasi di cera delle cose, ma che pure non ti rigetta, non ti riflette: penetri dentro come nella morbida – presumi – lanugine di tutti quei tanti capri espiatori disseminati per queste stanze, questi abitacoli pastellosi. Il metallo della lana. Eh, giˆ, perch l’arca di No si trasformata nella cabina di un aereo: e la modernitˆ presta alla vista il suo obl˜ di vetro.
Di l“, quella superficie liscia, incerata, lucidata quasi dalla lenta lingua, ruminante e violacea della giraffa, che interrompe l’idillio veneto di quella sacra famiglia nuda. Una pasta assorbita: sarˆ perch il pittore non usa preparare le tele, e la juta assetata divora il pigmento, s’impregna di gessositˆ, ne rimane come quest’impressione di affresco, di salnitro, nonostante il lucore brillante, vespertino delle forme. E’ una limpida notte d’inverno.
Per questo, prima, accennavo a Baccio Maria Bacci, un pittore che certo il mio pittore non pu˜ conoscere: quei maestri minori fiorentini novecenteschi dell’epoca di Margherita Sarfatti, che parevano giˆ allora di retroguardia, cui i Soffici e i Rosai guardavano con sufficienza, ma avevano una perizia delle tecniche davvero invidiabili. (E pensare per esempio, come rapporto mentale a Elisabeth Chaplin, quanto a fiorentinitˆ? Chissˆ dove andato a finire il catalogo). Chissˆ soprattutto se poi giusto partire dalla materia, oppure dai soggetti. Ma io talvolta sono un po tardo, a farmi stimolare dai possibili significati (giˆ, forse gli animali di cui rigurgita questa pittura sono diventati i veri padroni di una terra senza pi coesione umana. basterebbe spiare quella scimmia dal bianco pelo e dal tesoro di peperoni, come guata con terribile ferocia minacciosa il nostro piccolo, ridicolo mappa-mondo).
Trascuro i significati, i simboli, ma cerco di ascoltare il mood, quello magari si: e qui il silenzio carico, crudele, che mi colpisce. A differenza dei primi quadri, pi squartati, pi onirici, pi encombrŽs come direbbe un francese. Pieni di ÒrumoreÓ visivo, di urlanti larve alla Bacon, di bersagli che ad un certo punto dovranno pure andare a segno e scatenare, sganciare il suono rovesciato delle slot-machines. Quadri clinici, che invitano alla parola analitica, a quel profluvio d’immagini, che dopo la classica denegazione, ruscelleranno un poÕ umidi e imbarazzanti, come pozzetti di urina – lasciatemi usare questa parola un poco desueta – l“, direttamente sul lettino dello psicoanalista. Lievemente appisolato. Una rottura delle acque oniriche: vedi Decesso, Doccia Liturgica, e magari anche Stutturalista al bagno. Qui, nei pi recenti, l’acqua contenuta, invece, trattenuta da un vetro immaginario: ed il bello di questa materia bagnata ma impermeabile, imperlata di umidori un poÕ crepuscolari. Torno a dirlo: il silenzio d’acquario che mi cattura in queste opere, l’ovattato camminare felpato del racconto cromatico. Mi piace questa tenuta da vetrata, che comprime le forme e non le lascia sciogliersi nel surrealismo pi convenzionale, se non commerciale. Anche su questo torneremo. E dovr˜ fermarmi dunque su queste forme d’obl˜, di carlinga, che inseguono i quadri come una struttura fissa, rassicurante. Quest’atmosfera Saint-Exupery, da transvolatore della notte della civiltˆ. Come se tutto accadesse entro un aereo, castrato della sua funzionale mobilitˆ: l’aereo bloccato ed in disarmo della pittura, tenuto per compassione nell’hangar della memoria. E del resto se cieli compaiono in questa tele, e non sono soltanto cieli da camera di tappezzeria, sono quei cieli sciropposi che soltanto dall’alto d’un aereo, che scivola silenzioso, ti par di poter trattenere in una fotografia immaginaria: me ne ricorder˜. E sotto, slontanatissimi, gli effervescenti lumini casoratiani d’una laboriosa cittˆ senza nome. Ma qui, tutti hanno perduto la loro efficienza, il loro mestiere, il loro statuto burocratico di uomini. non c’ pi alcun mercato umano. Attendono. Rivolgono strane preghiere propiziatorie allo sguardo pesante e minaccioso del Bufalo, trasportano sulle spalle l’inutile pesce obbligato dell’iconografia di Tobiolo e l’Agelo, fumano sigarette senza brace nŽ tabacco: dialogano dentro una spazzola-telefono senza pi filo. Il filo stesso della vita, della comunicazione si perduto, s’ trasformato in una sagomatura astratta alla Magnelli: un nastro, non sai se cerebrale o se decorativo, che tenta di legare le cose, che cerca di soggettare il mondo, ma non fa che sottolineare, anzi, questo scollamento senza nemmeno pi pathos.
Le cose non s’incollano: appunto questo il vero senso che mi pare di percepire. Il silenzio pesante, sotterrato delle cose. Sono nature davvero morte, dallo sguardo ermeticamente chiuso, come quel neo-Chini plumbeo della testa d’idolo indiano che suggella un silenzio rituale. Anche gli abituali simboli iconografici delle vanitas, quel melograno per esempio che ci spinge verso le regioni plutonie, ed simbolo cristico di resurrezione, qui altro non che un sasso di colore, un incidente della luce: e il martello con quel suo livore lucido da fiamma ossidrica, non romperˆ nessun legame. Disteso, addormentato per sempre. Si trovano accanto le cose, ma hanno smarrito la parola, la loro funzione d’uso.
Forse dovrei ricominciare tutto da capo, da quel torso d’uomo ingessato, il sesso staccato come una cornetta del telefono. Anzi, dove mai sarˆ finito? (non stanno mai insieme le coppie ÒsessualiÓ di queste tele, ogni quadro ha il suo ying, non c’ pericolo che si riproducano. Ogni polo vive precauzionalmente ben separato, distinto. E quel casuario, cos“ dice l’ornitologia, quel casuario – mi hanno ÒimparatoÓ che si chiama cos“ – quel casuario col cimiero sussiegoso, che passa nel quadro con distratta sufficienza di volatile snob, ricordate lo struzzo che attraversa un film di Bu–uel come se niente fosse? ecco, vorrei saper descrivere il surrealismo di Zucchi proprio cos“, nessuna paccottiglia onirica, nessun oggetto molle alla Dal“. La forza dello straniamento delle cose, coese in uno strano concerto muto. Semplicemente l’incontro tra realtˆ che non hanno voglia di parlarsi, ma stanno bene cos“, insieme: fanno quadro mentale.
Certo, la meccanica ancora quella pre-surrealista del tavolo anatomico di LautrŽamont, su cui s’incontrarono per beneficio della storia delle avanguardie un celebre ombrello e una non meno chiaccherata macchina da cucire. Ma qui ogni intento provocatorio come assopito nel velluto stanco della pittura. Anche quel L.H.O.O.Q.2 che si dispone come un motivo di cornice sopra una nuda madonna laica con uovo ˆ la coque e una zucca che espone le sue trippe giallastre, diventato appunto un elemento di gioielleria grafica, che non ha pi nessuna ambizione o aggressivitˆ duchampiana. La Gioconda tornata, mogia e depilata, al suo Louvre.
Farla breve, insomma: non tanto del casuario che voglio parlare (che poi citato cos“ sembra pure un mezzadro di campagna, giˆ quasi possidente). E’ quel, come chiamarlo, sifone? scarico? bocchettone? griglia di scolo? insomma, quel buco schermato li, sulla destra, che mi fa riflettere. Credo che la vita di questi quadri sia tutta defluita via proprio ingollata voracemente da quel piccolo, minaccioso trou aperto nella vasca del mondo. E’ l’ultimo rumore che abbiamo ascoltato. Poi scesa questa palpebra di silenzio, questa polvere di apparente pacificazione.
Studiare per esempio la remissivitˆ gialla dell’artista autoritratto, che esercita quello strano morse gestuale, dell’appendersi al proprio orecchio. Che cosa mai vorrˆ significarci?
Certo, qualcosa successo. Devi ritrovare il titolo, no, non era Alphaville, di un breve episodio di Godard, era in Rogopag, insieme alla Ricotta di Pasolini. Come se nulla fosse successo. Scoppia l’atomica su Parigi, grandi titoli sui giornali, ma tutto cola come prima lentamente, tranquillo, ipocrita, nessuno fa sembrare di accorgersene. Nemmeno la cittˆ sembra esser cambiata: i dehors dei caff, la Tour Eiffel, i grandi viali haussmanniani. Eppure gli uomini hanno completamente perduto i sentimenti, ce ne accorgiamo a poco a poco, non sanno pi cosa voglia dire , che cosa significhino davvero parole come amore, odio, noia, desiderio. Anche qui, tutto troppo immobile: soltanto una mascherina da chirurgo ci fa capire che forse l’aria diventata davvero irrespirabile. Forse no c’ pi ossigeno. Tutto lentamente scivola, s’affloscia. Ma non c’ nemmeno il tempo di accorgersene, ogni cosa precipita verso un centro della terra vuoto, o pieno di acqua, di olio bollito, da buttare. Lentamente le testuggini planano attraverso l’aria chiusa del quadro, come deltaplani alla deriva, senza piloti. Cadute sorde di Icari, che non hanno mai avuto velleitˆ prometeiche, ma che pure dettano il ritmo lento, bradipesco, di queste conversation pieces: ritmo cos“ rallentato che non ascolteremo mai lo splash della deflagrazione. Nemmeno quella dell’utilitaria a volo di gabbiano, che scende in picchiata da chissˆ quale autostrada celeste, con l’eleganza greca di un kouros impigrito (ma sei sicuro che ci vedi davvero tutte queste cose?).
Anche le frecce hanno ultimato il loro compito: stanno rilassate come borsette tra le mani remissive delle dame, di questi imbalsamati castelli da gioco.
Forse s’ risolto cos“ il paradosso della tartaruga di Achille: in questa pittura parmenidea, che schiude per un’istante il suo acido sorriso, lasciandoci sostare ancora un minuto: ad immaginare che cosa mai potrˆ essere nel nostro mondo, domani.
Marco Vallora : ad immaginare che cosa mai potrˆ essere nel nostro mondo, domani.
Marco Vallora