Marco Senaldi, Colonizzatori e colonizzati, catalogo della mostra / exhibition catalogue, First Gallery, Roma.exhibition catalogue,
Chi di noi era il governato
e chi il governatore?
Son fatti che attengono alla Storia:
chi fosse la provincia e chi l’Impero…
Battisti Panella, Hegel
I
Ispirandosi a una frase di Valéry (“E’ poeta colui al quale le difficoltà inerenti alla sua arte danno delle idee, e non lo è colui al quale le tolgono”), Andrea Zucchi mi ha detto che secondo lui “il punto di forza di una disciplina sono i suoi limiti”. E’ un pensiero, questo, che mi ha messo a mio agio.
Come si può infatti non essere d’accordo, visto che sempre di più, proprio nel caso delle arti, le cose più interessanti siano nate al limite tra media diversi? A pensarci bene, però, questa osservazione non è così semplice come sembra a prima vista. Intanto, stiamo dicendo una cosa non scontata: la forza di un’arte non sta nel suo punto centrale, nel suo cuore nascosto, ma ai margini, in periferia, là dove va a terminare. In secondo luogo, il concetto di limite si rivela qui duplice: ci sono limiti interni a una cosa e ci sono i limiti che a quella cosa vengono imposti dall’esterno. La differenza sembra sottile, ma è facile da capire. Nessuna cosa, soprattutto se è una cosa culturale, nata dallo spirito umano, si muove nel vuoto – ma è sempre in relazione con qualcosa d’altro. Tra le arti, la pittura è quella a cui la modernità, con i suoi media, fotografia, cinema, video, ha imposto dei limiti brutali, svelandone le mancanze. Di colpo la pittura si è trovata allo scoperto, senza più giustificazione: inadeguata a produrre immagini davvero realistiche, impossibilitata a restituire il movimento delle cose, del tutto impotente nei confronti delle tecnologie audiovisuali, incapace di essere interattiva….
Questa strana situazione, tuttavia, ha fatto sì che i limiti intrinseci alla pittura, come tecnica e come arte, diventassero i suoi veri punti di forza e di resistenza. Costretta a confrontarsi con linguaggi apparentemente più forti, il gesto del dipingere ha assunto quasi d’improvviso nuovi e inediti significati. Sollevata dall’insostenibile fardello di “rappresentare la realtà”, la pittura, anziché semplicemente morire, è stata spinta da queste circostanze storiche a riscoprire se stessa, la sua vera identità di forma espressiva totale. La pittura è divenuta, più che un’arte della rappresentazione, una disciplina della visione.
“Una fotografia efficace può imprimersi a fondo nella coscienza, ma un buon dipinto è in grado, anche solo per un istante, di assorbire e di placare il flusso della coscienza” ha detto il pittore stesso (2005).
II
Questa potrebbe essere una chiave per intendere in genere il lavoro di Zucchi, e la serie dei Colonizzatori in particolare. Se ci si fa caso, nei cicli delle sue opere, da Configurazioni d’impermanenza (1998) a Combinatoria (2004) a White Lines (2005) fino ai lavori più recenti, le immagini non vengono mai da sole. Si tratta sempre di combinazioni, di rifacimenti, di sovrapposizioni, in cui i piani visivi non collimano mai. Le figure sono attorniate, quasi assediate, da altre figure, che le mettono in discussione o le smentiscono. Stratificate, le icone non si mostrano mai per ciò che semplicemente sono o rappresentano – ma vengono sempre doppiate da un filtro supplementare: sezionate da linee parallele bianche (White lines), contrapposte, ricombinate o suddivise (Combinatoria), oppure smangiate, aggredite, bucate da pattern geometrici di ipotetici quadri astratti soggiacenti (Quadri polari).
Tutte queste smentite e tutti questi ribaltamenti visivi però non hanno lo scopo di “far uscire” alla luce un qualche recondito significato nascosto sotto la superficie di ciò che vediamo. L’idea di forzare le apparenze, di svelare un segreto, di sciogliere un enigma qui non è adeguata al contesto. Il problema non è il risultato che si ottiene alla fine del processo di produzione, ma il percorso creativo che lo precede. Come nel caso di molti altri pittori contemporanei, anche nel caso di Zucchi guardare il quadro è importante, ma non basta. Il lavoro preparatorio è fondamentale, perché è già esso stesso parte integrante del risultato finale. Una visita nello studio dell’artista conferma l’ipotesi: nessuna immagine che ritroviamo nei quadri dell’artista nasce dalla fantasia – la mente immaginativa che produce tutto questo non sta nei “segreti recessi dell’animo”, ma giace già “là fuori”, sparpagliata in migliaia di riferimenti che provengono dalle fonti più diverse, in una sorta di Atlante della Memoria warburgiano che finisce per somigliare a un motore di ricerca ancor più impressionante in quanto fatto di tasselli reali, e non solo virtuali. Questa fase preliminare, minuziosa ed eclettica insieme, dà vita ad un andirivieni potenzialmente fecondo tra immagine fotografica, disegno, dipinto, e di nuovo immagine fotografica. Alla fine di questo movimento anche il quadro finale andrebbe inteso esso stesso come un “lavoro preparatorio”, nel senso di un esercizio propedeutico per ricominciare a “osservare” le immagini del mondo dopo averle catturate, ritagliate, letteralmente “riprodotte”.
In questo senso l’aspirazione dell’artista è quella ad una pittura “che sia classica senza essere nostalgica”: la classicità della pittura, la sua “tipicità”, non può far di nuovo leva, nostalgicamente, sulla propria storia plurimillenaria, ma dovrebbe essere impiegata come lo strumento adeguato per sottoporre ad analisi la continua “impermanenza” della contemporaneità, l’immenso profluvio iconico senza storia né memoria, il “flusso di immagini” che, come ha detto Marco Meneguzzo, ci accerchia da ogni parte. L’atteggiamento “classico” del pittore sarebbe dunque la collocazione giusta, offrirebbe lo spazio per una distanza “critica” nei confronti del “regime scopico” egemone – a patto però di rinunciare a ogni conforto nostalgico proveniente dalla tradizione del linguaggio pittorico.
III
Ora, se ci fermassimo a queste considerazioni, pur avendo colto nel suo insieme il senso dell’operazione artistica di Zucchi, mi pare che rischieremmo di sottovalutarne il senso più autentico. La combinatoria a cui le immagini vengono sottoposte infatti, anche se può sembrare casuale – ed in parte, in linea con l’atto di nascita dell’arte contemporanea, lo è – genera sempre dei significati sconcertanti.
La serie dei Colonizzatori sembra dire proprio questo. Non solo certe immagini intervengono brutalmente dentro altre, ma in genere lo scontro tra immagini così stridenti non fa che ricordarci come sia stridente la realtà che le ha prodotte e che ne permette la circolazione. Lo “scontro di civiltà” è al tempo stesso uno scontro di immagini, e la “guerra delle immagini” (come l’ha chiamata Marc Augé) è un’altra forma, e non la meno cruenta, di quel conflitto.
In questo senso, forse la frase di Valéry da cui siamo partiti andrebbe riletta di nuovo, stavolta in un accezione ancora più ampia e non solo relativa al confronto tra discipline artistiche. Forse, si potrebbe aggiungere a mò di parafrasi, il punto di forza di una cultura sono le sue difficoltà intrinseche. Se questo è vero, la domanda sollevata da questi Colonizzatori è sia sull’evidente asimmetria del rapporto tra l’individuo tribale e folklorico, e il suo contesto universalista e modernista, sia sulla direzione di tale asimmetria. Per riprendere le parole di Battisti-Panella, siamo portati chiederci chi colonizza chi, “chi è il governato e chi il governatore” – ovvero, in altre parole: che relazione ha l’immagine degli arcaici danzatori papua con l’asettica architettura contemporanea che ne costituisce lo sfondo?
Portate al limite, le culture sono costrette a esibire il proprio punto di forza, che non sta in una fantomatica “identità”, ma nel fatto che anche quelle che presumono di valere per tutti e di elevarsi all’Universale, restano condannate al frammento, alla particolarità e all’idiosincrasia. Tra i due poli del rapporto – tra i lama tibetani mascherati e le forme sinuose del Museo dell’Ontario di Daniel Libeskind alle loro spalle (Toronto, 2009), o tra le donne guineesi artigianalmente agghindate e la shilouette super hi-tech dell’hotel Burj Al Arab di Dubai (Dubai, 2009) – alla fine, non è affatto detto chi avrà l’ultima parola, se l’Impero tecno-finanziario, o il caos. Il confronto tra queste due realtà indica solo un limite, una soglia dal duplice verso, in entrata e in uscita – che lascia col dubbio e non offre alcuna certezza risolutiva. I misteriosi personaggi folklorici sono gli ultimi irriducibili rappresentanti di popolazioni in via di estinzione, cancellate dal progredire della globalizzazione di cui l’architettura moderna è un simbolo evidente? Oppure, sono quelle città e quei monumenti urbani ad aver perso il loro significato, e ad essere stati conquistati da orde di terroristi travestiti da guerrieri barbari?
Forse dovremmo iniziare a domandarci se per caso gli ultimi esponenti della tipica tribù all’oscuro di tutto non siamo proprio noi, gli individui occidentali ultra-civilizzati, incapaci di capire tanto il folklore ancestrale, da cui pure proveniamo, quanto la tecnologia avanzata, di cui peraltro ci serviamo quotidianamente.
E’ proprio per sfuggire a questo doppio destino di involuzione folklorica/perversione tecnologica che dovremmo invece far leva su ciò che abbiamo prodotto di classico, sui fondamenti stessi del nostro sapere – tra cui la nobile arte della pittura occupa certo un posto non secondario.