Luca Scarlini, Amabili resti: il ritratto dell’ombra, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Skira Editore, Fondazione Stelline, Milano.
Il paesaggio dell’Ottocento è sempre abitato da figurette in bilico verso l’abisso o l’assoluto. Nella costiera amalfitana era leggenda diffusa tra i compìti viaggiatori inglesi, che i disegnatori della domenica troppo attratti dal panorama, fossero risucchiati nell’abisso rombante delle acque, scontando amaramente la loro curiosità. Volavano in basso con il cavalletto, o con il pennello stretto nelle mani, tentavano di urlare, ma cessavano capendo l’inutilità di sperare salvezza. Edward Morgan Forster ambienta in questi luoghi un racconto mirabile di rivelazione sessuale e esistenziale, il titolo è chiarissimo nei suoi rimandi: Storia di un panico.
L’ora meridiana necessaria alla resa dello scatto, in tempi in cui l’illuminazione artificiale era fantasmatica o inesistente, accecava i soggetti delle immagini fotografiche che si facevano schermo con la mano, dovendo subire tempi assai lunghi di esposizione. Il demone antico di Pan, a quel punto era pronto a balzare su di loro, a invaderli, possederli, fornendo improvvise rivelazioni. Quella presenza, per tramite della camera oscura, luogo di ogni metamorfosi, inteso all’invenzione della memoria, era pronta ad invadere anche gli amati salotti. Luoghi per eccellenza nel XIX secolo della vivibilità dell’esistere, individuati come ambientazione prioritaria e privilegiata. Di fronte al camino, con in mano un bicchiere di sherry ben secco o di Madera, si discettava di amori e guerre, si sognava il miglioramento della società. Eppure per quanto quello spazio fosse anche troppo noto, tedioso nella sua prevedibilità, in esso si poteva improvvisamente manifestare una bocca di leone, in cui inserire proditoriamente una denuncia segreta, che l’autorità venisse subito avvertita dei misfatti che si svolgevano di fronte alle tende di cretonne, ben tirate contro il pericolo di eventuali sguardi indiscreti. Al momento del trionfo del living room, sala in cui, secondo il preciso termine inglese, si svolge la vita, era già chiaro a tutti che nessuna tutela sarebbe mai potuta bastare. C’era poco da schermare le sale, o da mettere piante invadenti nel bow window, le creature dolenti e minacciose di Una settimana di bontà di Max Ernst, facevano già capolino dai ripostigli impolverati. Savinio ha già trovato dove ambientare i suoi mostruosi poltrobabbi e poltromamme, vischiose divinità domestiche, sempre pronte a un finale abbraccio.
Nelle tele dai colori carichi si individua un museo personale delle palpebre sbattute nelle fotografie dell’Ottocento, degli improvvisi soprassalti, delle vite parallele di figure celebri o ignote, sempre pronte al doppio gioco. Che sia quindi una ricognizione tra gli amabili resti dell’Ottocento, nel suo cimitero monumentale di fotografie. Una ricognizione nell’epoca della granitica certezza, vissuta nel tempo del dubbio e del gioco, quando ciò che sembrava posa inamovibile, cambia per sempre di tinta e di forma. I colori carichi, accesi, da poster di film di Bollywood, permettono di intuire delle trame parallele, che sonnecchiano sotto la superficie dell’immagine.
Un lettore da quadro macchiaiolo cerca invano di sedurre i propri uditori a un verbo che nessuno segue: il sonno pesante ha chiuso le palpebre delle due ragazze sul divano a sinistra e anche un gentiluomo alla sua destra non è in migliori condizioni. Eppure chi ha il compito di scandire, non riesce in alcun modo ad allontanarsi dalla sua corvéé. Egli è obbligato a una recitazione, che è quasi preghiera, mantra, desiderio di sperdersi nelle righe e tra le pagine, di fare proseliti alla bellezza della propria storia.
Karl Marx ha indosso una giacca viola: è un dandy retrò, accigliato quanto basta dalla scoperta del plusvalore, ma preciso nelle sue scelte estetiche. Sembra una sua immagine uscita fuori dal celebre negozio che a Londra negli anni ’60 inventò il vintage della moda: Granny takes a trip. I rivoluzionari andavano lì dopo le manifestazioni di piazza a riscoprire la bellezza del guardaroba wildiano, in tutte le sue risonanze di immaginario. Il filosofo indossa gli stessi colori della madre di una celebre maliarda: la marchesa Casati Stampa. Regina della mondanità internazionale, e patronessa delle arti, ebbe la vocazione per il colpo di scena. La madre sembra prevedere la figlia, e la sua passione per il colpo di scena. Manca ancora qualche decennio a che la marchesa elettrica, regina dell’atropina e delle notti oscure, possa spiccare il balzo ardito della sua immaginazione, bruciando il mondo, fino a perdere la sua fortuna, amazzone inesausta della fantasia.
Garibaldi, nell’atelier del pittore, diventa un colorito personaggio di musicante andino, è pronto a dar fiato al suo flauto di pan, con le multicolori strisce del suo poncho a rilevare una tensione dello sguardo al ricordo, a quella Anita un tempo amatissima, che al tempo del ritratto era ostacolo alle brame del rivoluzionario, il quale voleva convolare a nuove nozze. Il corpo di lei, reliquia del Risorgimento, si era sperso nelle paludi di Comacchio e la ricerca di quelle ossa amorose, era atto d’obbligo perché potesse compiersi il nuovo legame.
Vittorio Emanuele II, padre unico della patria, per lo strepitoso numero di rampolli fuor delle nozze, a cui dava il nome di “Guerrieri”, in auspicio di un destino glorioso, sembra un giallo mandarino. Un dignitario cinese in visita ai territori dell’Occidente misterioso, compìto nella sua uniforme. Assai più di quanto non fosse il personaggio storico, che era noto per la sua incapacità di figurare in abiti di gala. Tormentava i guanti glacé fino a torcerli: l’uso diplomatico gli era ignoto. Le passioni sue erano quelle violente della caccia, della guerra e del sesso di rapina. Tre passioni forti, che scolorivano l’una nell’altra.
Il Marajà Pratap è sorpreso al lampo di magnesio, cerca di mantenere imperturbabile la perfezione formale del suo gran turbante, adorno di perle e gemme. Ha le mani coperte di anelli, che si immaginano pesanti al punto di non riuscire ad alzare le mani, di agitarle per avere un poco di vento, nel momento della massima calura del meriggio estivo. Due donne vegliano fino all’ultimo sospiro una morente; facciamo per un attimo che sia Emily Dickinson. Un’esistenza segreta, gelosamente mantenuta nell’incognito di un pensiero poetico lancinante, giunge al termine, mentre un uomo, sopraffatto, distoglie lo sguardo, osserva oltre la finestra. Oppure, invece, egli è sollevato di quella dipartita da tempo agognata: quella zitella sapiente da tempo lo aveva messo alle corde, non tollerava più il suo sarcasmo, le risposte taglienti.
Lontano dalle brume, il barone von Gloeden, collezionista indefesso di corpi mediterranei, li allestiva in rimando al sogno di un amore greco, che la società del suo tempo aborriva. Cicciuzzo mette le dita in bocca a un pesce volante, Carmine sta legato sopra a una ruota, come uno schiavo fuggiasco ripreso dal padrone e destinato a amara punizione, Pino e Peppe stanno a fianco, tutti e due con gli occhi chiusi, sembra che cerchino l’ispirazione.
Toulouse Lautrec, vestito da mandarino, ha in grembo un bambolotto che sembra replicare la sua attonita mascherata. Reca nella mano sinistra un ventaglio: sullo sfondo sta Yacco Sada, l’ambasciatrice dalle terre del Sol Levante, che portava a Parigi una ventata dal mondo del Kabuki. La sua disciplina minimale piaceva molto agli artisti, come al giovane Picasso che la ritrasse in un disegno appassionato. Il Baudelaire di Nadar, domina come Napoleone, con il braccio dentro la giubba violetta, i reami dell’immaginazione di Spleen, di cui si è fatto despota assoluto.
Le cartoline di Sorrento o di Venezia, sono come appunti per un disastro a venire: quello che resta di quegli ammirati panorami, è l’esitazione dello sfondo, la difficoltà di messa a fuoco dei contorni. Sullo sfondo di Taormina i revenants degli antichi greci, dialogano con una Teodora di Bisanzio da cartolina porno, in omaggio alle storie purpuree, dense di sesso e sangue, ordite da Procopio di Cesarea intorno alla imperial striptiseuse, nota per performance assai accese.
La pinacoteca delle storie parallele, indugia su un dettaglio, uno scorcio: come nella scena del teatro del sogno concepito da Artemidoro di Daldi, prepara una messinscena che ha come scopo la manifestazione di una possibile epifania, nei colori acidi del presente.