Luca Beatrice, Un classicista in cerca d’imprevisti, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Silvana Editoriale, Fondazione Durini, Milano
Osserva Ralph Rugoff nel testo introduttivo al catalogo Dipingere la vita moderna: “Invece di subire una condanna a morte in seguito all’invenzione della macchina fotografica, la pittura ha accolto in sé la fotografia per ridefinire ed estendere la propria portata concettuale”. Attualmente il Castello di Rivoli ospita questa mostra, proveniente dalla Hayward Gallery di Londra, in cui si sottolinea l’importante rapporto tra pittura e fotografia sviluppatosi in almeno due periodi della storia recente: gli anni Sessanta, quando artisti come Warhol, Richter, Artschwager trascrivono nei loro quadri le immagini della cronaca quotidiana, e gli anni Novanta, che registrano il diffondersi a macchia d’olio di una pittura che si mimetizza con il linguaggio della fotografia, attratta dal realismo in presa diretta.
Il legame tra pittura e rappresentazione della vita moderna è però antecedente al Novecento. La definizione “pittore della vita moderna” risale al celebre saggio di Charles Baudelaire e si adatta in particolare a quelle forme “del transitorio, del fuggevole, del contingente” presenti nella vita in città. Torniamo ora al senso della mostra. Interessante, ma giunta con un decennio abbondante di ritardo, poiché, come detto, il rapporto pittura-fotografia è stato messo a fuoco soprattutto negli anni Novanta a seguito del rapido diffondersi di alcuni strumenti tecnologici portatori di una nuova estetica. L’home video, con il dvd che sostituisce il vhs favorendo la possibilità di rintracciare e fermare un’immagine, determina ad esempio il moltiplicarsi di pittori che “copiano” il cinema (o si ispirano a esso), ritenendo fondamentale nella propria poetica l’infinito archivio contenuto nella memoria filmica. Le macchinette “usa e getta” e le camere digitali, sempre più economiche e facili da usare, hanno diffuso l’estetica dello snapshot, ovvero dello scatto istantaneo, in presa diretta, che non seleziona la realtà ma la cataloga. Questo tipo di stile fotografico, che rifiuta la messa in posa, ha influenzato decisivamente anche i pittori, attenti a soggetti quotidiani, non aulici, contingenti, ispirati se non addirittura sedotti dalla particolare grana dell’immagine digitale, sostituita nell’ultimo scorcio di secolo dalle foto e videocamere inglobate all’interno dei telefoni cellulari, ovvero il trionfo dell’immaginario “qui e ora” che magari non consentirà particolari virtuosismi ma in quanto a realismo non trova uguali.
Nonostante sia emerso proprio negli anni Novanta, Andrea Zucchi non appartiene a questa famiglia di pittori “fotografici”. Basti riandare alle mostre di allora (le personali allo Studio Grossetti, Milano 1995 e allo Spazio Consolo, Milano 1998 oltre alle diverse rassegne dedicate alla “nuova figurazione italiana”) e ci si accorgerà di come i suoi riferimenti iconografici e culturali fossero già allora lontani dal mood metropolitano-realistico in voga. Zucchi piuttosto guardava alla Metafisica, al Realismo Magico, al Surrealismo: zone d’ombra nella pittura del Novecento sacrificate sull’altare delle avanguardie, venerate da un pubblico di nicchia e in generale poco considerate dalla critica. Classicista per vocazione, il giovane Zucchi guarda a Testori e a Bacon, figure immense ma fondamentalmente isolate. Si tratta in ogni caso di pittura “pura”, lontanissima dal trend fotografico.
A partire dal nuovo decennio Zucchi mette a punto e sviluppa quello che oggi possiamo considerare il suo linguaggio maturo. Ovvero, nel dipinto troviamo accostate immagini di natura diversa. All’inizio separate da campi di colore monocromo, una sorta di pausa cromatica utile a dare ritmo e ordine alla composizione (si veda mostra da Obraz, Milano 2004), mentre gli ultimi quadri presentano una struttura completamente libera e priva di vincoli. Ma facciamo un passo indietro. Andrea Zucchi è nato nel 1964. Sono gli stessi anni in cui, si è visto, i pittori scoprono per la prima volta il potenziale della fotografia e la utilizzano nei loro quadri. Sarà forse un caso, ma è la stessa epoca in cui si registra un interesse diffuso nei confronti dell’immagine realista. Nelle case italiane di quando eravamo bambini compare Conoscere, una nuova enciclopedia illustrata, non ordinata secondo l’alfabeto, ma una quindicina di volumi “dove gli argomenti – ricorda lo scrittore Giulio Mozzi – si susseguivano senza nessun ordine apparente, eppure erano sempre reperibili per mezzo dell’indice; e dove, sfogliando senza l’aiuto dell’indice, a casaccio, ricevevo un’immagine stupenda dell’infinita varietà del tutto”.
C’era la possibilità, per ogni lettore, di scegliersi la propria strada da percorrere (un po’ come avviene nel Trivial oppure in una sorta di ipertesto ante litteram) ma anche di farsi suggestionare da ciò che non si conosceva ancora; lo scopo era di non arrivare a un’iperspecializzazione ma di saperne un po’ di più su tutto. L’impianto iconografico tutto a colori poteva portare là dove la consultazione di un’enciclopedia tradizionale non sarebbe mai arrivata, e così si potevano creare sorprendenti accostamenti tra le cose, e la memoria si abituava a essere mobile e fluttuante. Conoscere risponde in qualche modo al principio espresso da Deleuze e Guattari in Millepiani a proposito del Rizoma: un particolare tipo di radice che ha la specificità di penetrare il terreno lungo un movimento di estensione orizzontale, a differenza del più usuale tipo di radice a fittone, che penetra in senso verticale sino a radicarsi in profondità. Questa figura serve al filosofo e allo psicanalista per significare un intero diagramma di posizione e movimento di pensiero. Infatti uno degli intenti è quello di delineare una modalità di pensare la superficie che si ponga in maniera alternativa rispetto alla metafisica del fondo. La citazione deleuziana dello scrittore Michel Tournier suona opportuna: “strano pregiudizio che valorizza ciecamente la profondità a scapito della superficie, pretendendo che superficiale, significhi non già di vaste dimensioni, bensì di poca profondità, mentre profondo significa di grande profondità e non di superficie ristretta”. La geofilosofia che Deleuze e Guattari disegnano, utilizzando testi provenienti da disparate atmosfere culturali (dalla psicologia all’antropologia, dalla letteratura all’estetica) cerca di cogliere, da un lato, tutto il paesaggio osservabile allo sguardo di superficie (che non va equivocato con una attenzione all’elemento banale) individuando per ogni topos l’esatta posizione, la propria consistenza, le relazioni che instaura con altri punti, la molteplicità di figure che disegna in concatenamento con altre figure; dall’altro, secondo una prospettiva storica, le stratificazioni che si sono succedute, segno di ere diverse, in cui il fattore storico si intreccia con le conformazioni territoriali in un gioco sempre inedito di scarto e persistenza.
Tornando a uno specifico estetico, nei volumi di Conoscere non si trovavano foto ma illustrazioni. Agli autori si chiedeva dunque di copiare la realtà reinventandola attraverso gli accostamenti. Il disegno suggeriva un approccio realistico, mai fotografico, e le diverse mani impiegate ne impedivano l’appiattimento stilistico. Proprio le combinazioni tra cose diverse rispondevano al principio Dada e surrealista del caso. Così come va ricordata la teoria di Eizenstein a proposito del montaggio cinematografico, secondo il quale l’immagine A sommata all’immagine B non dà per risultato la somma delle due parti, ovvero l’immagine AB, ma una terza immagine C, di fatto virtuale.
Tutto ciò per spiegare che la pittura di Zucchi si fonda sull’ossessione dell’indagine iconografica e formale. Le cose stanno bene insieme non perché potrebbero voler dire la stessa cosa, ma per vicinanze strutturali, cromatiche, principiando da elementi denotativi che solo in seguito possono diventare connotativi. Non dimentichiamo che, sempre a proposito di generazione, la nostra in età universitaria ha respirato l’aria della semiologia – disciplina che studia i fenomeni di significazione e di comunicazione, dove per significazione si intende ogni relazione che lega qualcosa di materialmente presente a qualcos’altro di assente (la luce rossa del semaforo significa, stop). Ogni volta che si mette in pratica o si usa una relazione di significazione si attiva un processo di comunicazione (il semaforo è rosso e quindi arresto l’auto). Le relazioni di significazione definiscono il sistema che viene a essere presupposto dai concreti processi di comunicazione. Ciò a conferma che anche nel background di un pittore così esplicitamente figurativo come Zucchi, l’analisi supera di gran lunga la narratività.
Oggi – il salto temporale può apparire ben più azzardato di quanto non dimostrino poi i fatti – siamo nell’era dei motori di ricerca, di Google e Yahoo (ed è proprio delle ultime settimane la disputa tra quale dei due sia effettivamente migliore, più efficace, più completo). Strumenti che hanno soppiantato i metodi tradizionali di documentazione soprattutto per la velocità. Un tempo per scrivere un testo del genere avrei dovuto cercare decine di testi e cataloghi nella mia libreria e, non bastando, recarmi in biblioteca. Negli anni Duemila è sufficiente inserire parole chiave o immagini che si desidera rintracciare. La rapidità si sposa all’immensa quantità di dati disponibili, evidenti o nascosti, ma il principio fondante non è poi troppo diverso da quello di Conoscere, del Dada, del Surrealismo. Missione creativa di Google (Yahoo) è il favorire gli accostamenti imprevisti, seguendo la filosofia del Serendipity –scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra.
Rispetto alla pittura, la fotografia favorisce l’approccio piatto sulla realtà, colpisce e seduce nella sua evidenza, difficilmente la rielabora. Oggi, per un pittore, non avrebbe più senso copiare un’immagine (un frame di un film), ma diventa necessario farsene una propria. Sono cambiati il modo di scrittura (più veloce, meno ortodosso, favorisce la curiosità, le nicchie) e di rappresentazione. Dall’inizio dell’ultimo decennio i pittori figurativi lavorano per immagini affiancate o giustapposte sul medesimo piano di lettura, anche se non dimostrano necessari legami tra loro: ad esempio Neo Rauchi, Matthias Weischer in Germania, Alessandro Roma, Manuele Cerutti e il nostro Andrea Zucchi in Italia. Solo una lettura piatta e superficiale del suo linguaggio lo ridurrebbe al fotorealismo o all’iperrealismo. La texture di Zucchi è irregolare, aggrovigliata, antianalitica, cromaticamente fissata su un mono-tòno che governa l’organizzazione formale dei quadri. Soltanto in seguito potremmo osservare se e perché stanno bene insieme soggetti archetipici e architetture futuribili, persistenze antiche con effigi della modernità. Sarà interessante, curioso, ma credetemi non è fondamentale.