Andrea Zucchi, l’eccentrica sontuosità della pittura – Intervista di Chiara Canali
Questo nuovo ciclo di opere fin dal titolo “Spaesamenti” sembrerebbe ricollegarsi alla poetica della metafisica nell’utilizzo di un procedimento che accosta realtà inconsuete e inconciliabili tra loro all’interno di una dimensione naturalista. Credi possa sussistere nella tua ricerca un debito nei confronti dell’esperienza metafisica e dove invece se ne allontana?
Da molti anni non guardo più con attenzione a de Chirico, ma il suo ascendente tra i pittori del ‘900, insieme forse a Bacon, è stato determinante nella mia formazione. La loro capacità di non interrompere, come molti contemporanei, un dialogo serrato con i canoni della tradizione, e di svilupparne variazioni significative dall’interno, è per me molto più interessante e problematico che inventarne di nuovi. Più che di naturalismo, che insegue soprattutto l’apparenza “retinica” della visione, preferirei però parlare di realismo, che rielabora in maniera più stratificata le nostre percezioni del mondo.
L’accostamento di elementi inconsueti è una pratica ormai ampiamente sfruttata, ma che può ancora generare effetti piuttosto diversi. A differenza dei Surrealisti, che la virarono in direzione viscerale o immaginativa, il senso di straniamento della Metafisica credo abbia origine, più che dalla giustapposizione dei soggetti, dal gioco plastico delle composizioni, e in questo senso sarei lieto di esserne considerato un continuatore. Oggi mi sto effettivamente riavvicinando a De Chirico, ma forse alla sua fase “seicentesca”, piuttosto che a quella più asciutta influenzata dai “primitivi” italiani. Avevo anche ipotizzato per questa mostra il titolo “Metafisica dell’esotismo”, ma è un termine talmente abusato da rendermelo un poco indigesto.
Nelle tue immagini figure e animali esotici sono introdotti all’interno di luoghi non coincidenti alla loro provenienza etnica. Oltre alla percezione di uno spaesamento geografico, si avverte un senso di disorientamento temporale…
Utilizzo quello che più attira il mio sguardo, ma per paura di disperdermi ho necessità d’adottare un comune denominatore per i miei cicli di opere.
La varietà, forse facilmente pittoresca, dei soggetti esotici e la spettacolarità, talvolta anche vacua, di molta architettura contemporanea, si prestava bene al mio bisogno di catturare e mischiare una moltitudine di soggetti. Se devo individuare qualcosa di meraviglioso nella vita e nel mondo, cosa non sempre facile per noi umani, la trovo in primo luogo nell’infinita e incredibile variazione di forme, viventi e non, che essa produce nel corso del tempo. Solo a posteriori, (come dice Brigante sono un po’ lento a rimuginare…), devo ammettere che questa forzata ed estetica “abbinata” d’architettura e d’esotismo, che contiene forse un retrogusto da immaginario fantascientifico, comporta inevitabilmente anche tematiche, ahimè, socio-politiche. Sacche di resistenza d’antiche culture e di specie animali potranno sopravvivere ad un sistema sempre più indifferenziato e uniformante, che i magnifici Moloch dei moderni edifici incarnano loro malgrado, solo per imprevisti adattamenti e migrazioni. Per quanto visivamente esasperata nei miei quadri, è già realtà in atto; anche in Padania puoi trovare allevamenti di struzzi o di vigogne, e quelli bovini sono ormaiaccuditi da comunità di bellissimi Sikh in turbante rosso.
Quale criterio ti guida in questa operazione sistematica di concatenazione tra gruppi etnici e strutture architettoniche distanti e lontane? Esiste una motivazione logica e consequenziale o una ragione di carattere antropologico o letterario?
Lo stesso criterio che userebbe un buon pittore di nature morte nell’abbinare carcasse animali con frutti, verdure e calici di cristallo.
Solo che al posto di melanzane e fagiani, io accosto immagini prelevate dalla carta stampata e le ricombino per corrispondenze o contrasti formali e cromatici. Il copricapo del papuano e il becco del bucero richiamano le linee delle costruzioni di Calatrava, l’iper-decorazione dei guerrieri etiopi si fonde con quella barocca del Collegio Clementino, i dischetti di metallo sul volto della berbera si dispongono a somiglianza della struttura del monumento all’Atomo. Poi certo, non tutte le ciambelle riescono col buco, ma perlomeno cerco di differenziarne le fogge. Inoltre ho provato a dedicare molta attenzione ai rapporti cromatici, anche se non li nota più nessuno, abbagliati come siamo dal gusto pop, spostandomi verso un deciso tonalismo e una gamma ristretta di tinte.
Detto questo, non posso sfuggire al problema della narrazione, verso cui lentamente mi sto riappacificando. Non voglio ancora inscenare storie, ma se le immagini che sviluppo ne suscitano, la cosa non mi disturba più, anzi, comincia ad intrigarmi, perché in fondo in fondo m’inchino alla superiorità della letteratura.
La dominante esotica delle figure del terzo mondo inserita in spazi spersonalizzati e ambientazioni mutate, che corrispondono ai non-luoghi descritti dall’antropologo Marc Augé, determina una sensazione di voyeurismo unita a un sentimento di solitudine e individualità.
La tua è anche una riflessione sulla perdita di confini geografici e sullo spaesamento della surmodernità?
Vorrei poter rispondere come un noto personaggio di Melville “I would prefer not”, ma sarebbe disonesto. Mi rintano quindi dietro Flaubert con un “le dépaysé c’est moi”.
Secondo la lettura strutturalista di L. Strauss, forme e contenuti di un’opera devono essere perfettamente corrispondenti e rispecchianti al fine di trasmettere un comunicazione completa. Nel tuo caso, la pittura può essere un duttile strumento per registrare e veicolare le tracce di un pensiero, ma nello stesso tempo può diventare un esercizio di virtuosismo fine a se stesso.
La scelta dei soggetti non è mai neutrale e influisce non poco nelle soluzioni formali e viceversa.
In questo genere di pittura il pericolo del virtuosismo è sempre in agguato, e ci si cade spesso, ma è un rischio che trovo più nobile affrontare perché è un nemico più potente e subdolo della sciatteria oggi di moda.
Vorrei poter operare senza l’ausilio del disegno, ma ho capito che in quella direzione non andrei da nessuna parte. Lavoro quindi su questo limite, che poi non è neanche così male, e cerco d’imbastirvi sopra brani di vera pittura, talvolta riuscendoci, e spesso fallendo.
I miei lavori risultano, in fotografia, molto realisti e analitici, ma se li osservi con attenzione sono alquanto rozzi e imprecisi, con linee tremule e dettagli confusi, resi con una materia pittorica stratificata e granulosa.
Il tuo lavoro può essere considerato una branchia di quel filone della tradizione pittorica ad orientamento realista, che si colloca nel giusto mezzo tra l’equilibrio composto della classicità rinascimentale e l’esuberanza eccessiva del manierismo barocco. Quali sono i tuoi maestri di riferimento all’interno della storia dell’arte?
Domanda vastissima, e in continua mutazione perché i gusti e gl’interessi cambiano. In assoluto l’Arte Egizia e a discendere quella Greca.
Quando iniziai a dipingere amavo a dismisura El Greco e Pontormo, la visionarietà di William Blake, anche se non è certo un gran pittore, i già citati Bacon e De chirico e il buon Van Gogh, in qualità di Santo Protettore degli emarginati.
In termini generici posso dire d’essere più in sintonia con artisti che si trovano ad operare quando un linguaggio formale è ormai saturo, dove le variazioni possono svilupparsi solo in maniera o molto sofisticata o molto eccentrica. I periodi di grande innovazione sono troppo freschi, dinamici e vitali, e io, che ho un animo da bue, mi trovo a mio agio con ciò che è greve, pesante, riflessivo, non sbandierato. In questo senso oggi sono sempre più interessato ad una linea di pittura classica, suntuosa ma non compiaciuta, che s’innalza con il tardo Tiziano, si riverbera col sovrappiù luministico del Caravaggio, da una parte su Velazquez e dall’altra su Rembrandt, riappare brevemente in Goya e Géricault, per poi dissolversi con Manet.
Da quella scuola, se possibile, mi piacerebbe imparar qualcosa e ripartire, lasciando decantare un poco l’esagitato Novecento…