Alessandro Riva, Do Painters Dream of Electric Rhinos?, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Studio ZCC NDR, Milano.
“Chi dice che bisogna partire dal lato naturale può aver ragione
proprio come chi sostiene il contrario: voglio solo sottolineare
quanto sia pericoloso adottare un sistema”.
Piet Mondrian
Il lavoro di Andrea Zucchi si svolge, da tempo, all’insegna della messa in discussione – inesorabilmente e sistematica – di tutti i luoghi comuni di cui la pittura contemporanea costantemente si nutre. Ancora nel 1993, quando la vague pulp era di là da venire, e la fantascienza abitava soltanto i sogni di pochi (si fa per dire) fanatici sognatori di pecore elettriche, e non aveva ancora cominciato a sconfinare stabilmente nei territori ambigui dell’arte, Zucchi lavorava su una linea onirico-fantascientecnologica, ingabbiando figure che parevano uscite dai nostri peggiori sogni adolescenziali in un mondo fatto di stanze metalliche e di oblò da camera iperbarica con il contorno di una sofisticata attrazione per l’orrido e lo spaventoso, incastonato – il tutto – un una sorta di griglia geometrica che sembrava già prefigurare la futura messa in dubbio della composizione – e della figurazione tout-court – così come più tardi si sarebbe poi, effettivamente, verificata. Ci sono stati poi babbuini parlanti e strani kolonizzatori che abitavano un mondo a metà strada tra Kubrik e il Franklin J. Scaffner del memorabile Pianeta delle scimmie – e per sempre, sempre, la scena dipinta era costretta dal suo stesso creatore a sottostare a una strana griglia (più o meno geometrica, più o meno accentuata) che le si sovrapponeva fluttuando leggera sulla superficie del quadro, non tanto a indicare una sostanziale disarmonica della composizione, quanto ad avvertire l’eventuale fruitore: ATTENZIONE, ciò che viene rappresentato qua sotto non è che il frutto di una artificio – e di questo artificio voi stessi siete, allo stesso tempo, spettatori e attori, architetti e inquilini, vittime e carnefici. Zucchi ha sempre rifiutato, infatti, di gettarsi (e di gettarci) completamente nel gorgo della fiction pittorica, sapendo indistintamente, dentro di sé, che l’impalcatura del romanzesco, dell’emozione dipinta, del contenutismo non erano, e non sono, che specchietti per le allodole per chi all’arte chiede soltanto un momento di vita reale – e sapendo che, al fine della costruzione del quadro, l’uso di uno stilema da science fiction o da film noir non sono che scuse, occasioni per la creazioni di un mondo e, infine, di un sistema di segni – in breve, di un linguaggio. Oggi Zucchi, bruciando tappe e lasciandosi alle spalle possibili derive manieriste di tipo strettamente contenutistico, è arrivato al suo ennesimo punto di svolta – all’interno, sia chiaro, di un percorso coerente quanto quello di pochissimi altri autori presenti oggi sulla scena (seppure forse poco compreso dai cultori dell’arte alla moda e dello chic d’importazione). In questo ultimo ciclo, Zucchi è infatti partito da una premessa – potremmo dire da una finzione –, quella di un mondo che non esiste se non nell’iperuranio della nostra memoria di bambini lettori di qualche improbabile libro didattico a sfondo naturalistico documentario televisivo sulla vita animale il mondo dei rinoceronti è, infatti, quanto di più irreale, di più finzionale – se mi si concede il termine – possa esistere nel (nostro) universo. Il suo lavoro diventa, così, pura indagine formale, puro ragionamento concettuale, privato di qualsiasi interferenza contenutistica o misunderstanding cult-modaiolo. Sulla superficie – ancora una volta – del quadro, infatti, Zucchi ha incastonato, come corpi estranei sottilmente e misteriosamente omogenei tra loro, una serie di quadrati e di rettangoli – una griglia, appunto, ancora una volta, che rimanda di primo acchito a quella inventata da Mondrian –, al di sopra della quale è possibile leggere un’ulteriore griglia, che rimanda direttamente a un possibile linguaggio da codice binario, o da scansione elettronica: dove i pieni e i vuoti diventano non più, e non solo, pura energia compositiva, puro bilanciamento di pesi e di spazi, ma il simbolo misterioso di un qualche linguaggio digitale, di un qualche input elettronico per la traduzione di un codice la cui comprensione è destinata fatalmente a sfuggirci. L’intero lavoro di Zucchi del ciclo che lui, ironicamente, ricollega all’indagine neoplastica di Mondrian, ci apre così uno spiraglio non tanto sulla ricerca di un’armonia tra le cose del mondo naturale e quello artificiale (come potrebbe pure, e non senza qualche ragione, apparire, e come accadrebbe peraltro se Zucchi avesse inteso riprendere sul serio la lezione di Mondrian), quanto sull’impossibilità, oggi, di ragionare sull’immagine – compresa quella strettamente pittorica – prescindendo dal linguaggio che i nuovi media ci offrono e, in definitiva, ci impongono. Quello di Zucchi è cioè un ragionamento non tanto sul significato della realtà, ma sul significato delle immagini della realtà: così come, del resto, proprio sulle immagini – di quelle tratte dai media o dalla pura fiction – ha ragionato, coi suoi quadri, fin dall’esordio. Dai babbuini (o nasiche che fossero) che annunciano al mondo (via radio, come Orson Welles nella Guerra dei mondi) la loro conquista dell’universo degli uomini, fino ai rinoceronti ingabbiati nella griglia neoplastico-tecnologica di oggi, il lavoro di Zucchi continua imperterrito nella sua opere di messa in discussione, e, in ultima analisi, di ridefinizione delle coordinate che siamo soliti usare e con le quali siamo soliti guardare alle immagini che il mondo ci butta costantemente addosso.