2013 Andrea Zucchi, Confuso con metodo. Testo di autopresentazione per le proprie opere nella Collezione VAF-Stiftung /
Ho poca immaginazione, e per questo sono affascinato dalle immagini e dai visionari. Purtroppo da ragazzino mi ero messo in testa di fare l’artista, volevo diventare un poeta-pittore mistico e rivoluzionario, un po’ alla William Blake, uno degl’idoli della mia adolescenza. Oltre che di spiriti, fantasticavo anche di schiere di languide fanciulle che tra una posa e l’altra mi concedevano le loro grazie, ma quello è un sogno che non ho mai provato a realizzare. A molte aspirazioni, spesso velleitarie, è da tempo che ho rinunciato, ma mi ostino a rimanere pittore, anche se col senno di poi non mi dispiacerebbe oggi essere medico, idraulico o qualcuno che fa qualcosa d’immediatamente utile.
La dimensione di sofisticato entertaining che sempre più sta assumendo l’arte contemporanea mi mette un certo disagio. Come soggetto per i miei dipinti, certamente più accessibile e disponibile delle modelle o di visioni dell’anima, mi accontento delle immagini fotografiche che raccolgo e che in un determinato momento catturano la mia attenzione. Sono innumerevoli, a portata di mano, e invadono i miei pensieri attivando le mie connessioni cerebrali in maniera più fervida che se fossi direttamente di fronte alla Natura.
Non è la fotografia in sé ad attrarmi, ma l’infinita molteplicità di soggetti che essa veicola. Vivo abbastanza appartato, e mi circondo di libri documentari di ogni genere; paesaggi antartici, deserti, vulcani, animali esotici, insetti, pesci degli abissi, popoli tribali, civiltà scomparse, templi, architetture contemporanee, laboratori scientifici, galassie, esplosioni atomiche, armature, ritratti di personaggi storici, lottatori, tuffatori, monaci, nudi ottocenteschi, parti anatomiche, e via dicendo. Davanti ai miei occhi di pittore inizia così a dispiegarsi uno scenario eccessivamente saturo d’informazioni visive, ricolmo di riproduzioni e sequenze.
Un turbinio di mondi ammassati in un caotico universo. Senza unità, senza coesione, senza armonia. Fatico a mettere a fuoco, come se guardassi in un caleidoscopio o in un labirinto di specchi. La nostra percezione ci impone dei limiti, dei confini, possiamo cogliere solo una gamma ristretta di ciò che è intorno a noi. Per non disperdermi provo a dar ordine, almeno formale, alla moltitudine di riflessi che mi abbaglia ed incanta. Amo la sintesi più dell’accumulo. Cerco un metodo, ma resto comunque confuso. Seleziono dei temi che sviluppo per qualche anno, per poi abbandonarli e talvolta riprenderli. Lavoro a cicli, con salti anche bruschi tra loro, ma tutti fondati sull’appropriazione d’immagini esistenti. Non creo nulla. Copio, combino, connetto, affianco, stratifico, sovrappongo e ripropongo.
La definizione parzialmente riduttiva di Platone della pittura come “copia di una copia” torna così per me ad essere più che mai appropriata, solo che in quest’epoca virtuale, dove il “copia e incolla” è prassi comune, assume nuove e impreviste risonanze. Le simulazioni delle tecniche digitali hanno raggiunto livelli spettacolari con cui difficilmente la pittura può competere. Tuttavia il medium lento ed antico della pittura mi permette di fissare e dar maggior corpo a questo flusso incessante d’immagini prese dai media, e a renderlo oggetto di contemplazione. Soddisfa il mio costante bisogno di congiungere frammenti di realtà distanti tra loro con maggior pregnanza e vigore di un programma digitale. Mantiene vivo in fondo il desiderio d’inseguire quell’unità originaria di tutte le cose che non riusciamo mai ad afferrare.
Un’unità viva e pulsante, che abbracci in sé gli infiniti mondi in continua trasformazione, da cui è sorta e in cui si estinguerà la nostra limitatissima coscienza. Un’unità che trova forse forma solo nelle immagini e nei sogni di qualche visionario.