Ivan Quaroni, Forme di una ecologia visiva, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Galleria Annovi, Sassuolo (Modena).
A proposito dell’opera di Francis Bacon, Gilles Deleuze precisava che ogni pittore è costretto ad affrontare una serie di condizionipreesistenti alla tela. “La tela – diceva il filosofo francese – non è una superficie bianca, ma interamente ingombra di cliché, anche se non li si vede. Il lavoro del pittore consiste nel distruggerli: il pittore deve passare attraverso un momento in cui non vede più nulla, attraverso uno sprofondamento delle coordinate visuali”[1].
La pittura, insomma, non solo recherebbe la catastrofe nel proprio corpo, ma ne farebbe, anzi, la matrice primaria del quadro.
Pochissimi sono oggi i giovani pittori italiani che hanno accolto questa difficile lezione, che sono riusciti ad accettare un confronto con la tradizione, procedendo per progressivi inciampi, con andamento claudicante ed incerto.
C’è, in questa attitudine amorevole verso la pittura, una consapevolezza chiara delle tappe e delle conquiste che si sono succedute nel corso della Storia. C’è, pure, la coscienza della decadenza della funzione rappresentativa della pittura, minata alle fondamenta dall’irruenza della fotografia nell’arte contemporanea.
Non si finirà mai di rimarcare quanto, da Richter in poi (ma forse anche prima), l’arte abbia saccheggiato la fotografia, non solo utilizzandola come fonte iconografica prima, in sostituzione delle pratiche di mimesi diretta della realtà, ma emulandola, talvolta, persino nelle modalità espressive e nello stile stesso.
E così, si è formata una pletora di nuovi pittori, adepti fedeli di una visione monoculare. Perché, in definitiva, l’obiettivo fotografico, altro non è che un meccanico occhio ciclopico, che in nulla può sostituire l’esperienza percettiva di una visione bifocale.
D’altra parte, in terra caecorum, monoculi regnant…
Inevitabilmente ci si chiede: se la pittura copia la fotografia, qual è mai diventato l’oggetto del dipingere?
Se non è la realtà stessa, quella sensibile, e non è più quella spirituale, che pare essersi arrestata col naufragio delle astrazioni, qual è dunque il modello cui il pittore si attiene?
Infine, se non è la dimensione psicologica, quella degli automatismi psichici e dei “cadaveri squisiti” del Surrealismo, qual è il dominio di questa pittura sommersa e salvata?
Sono tali le questioni che Andrea Zucchi affronta, esiliandosi peraltro in una posizione scomoda, ritagliandosi, per così dire, uno spazio incerto, persino impopolare, all’interno dello scenario italiano attuale.
Andrea Zucchi, fin dal principio, ha affollato le sue tele d’innumerevoli elementi contrastanti, di episodi giustapposti, accostati, ammonticchiati nello spazio ristretto di un cubicolo, di uno scomparto, d’un corridoio, perfino di una stanza.
Li ha immersi poi in un’atmosfera retrò, una sorta di versione moderna e apocalittica della frigidità pierfrancescana di Felice Casorati o di Christian Schad. Nella sua inarrestabile smania di aggiungere particolari, ovvero nella sua difficoltà a concludere l’opera, a porvi fine una volta per tutte, come per effetto di una implacabile insoddisfazione, Zucchi ha escogitato nuove e ingannevoli strategie di accumulo. Ha cominciato commentando le sue composizioni con brevi motti, scritti con discrezione lungo il perimetro del quadro, e ha continuato tracciando sulla tela, già virtualmente finita, sottili griglie a guisa di quadrante, di mirino o di pianta architettonica.
La verità è che Andrea Zucchi non poteva, e non può, sopportare la nuda evidenza dell’immagine, quella spudorata indiscrezione figurale, sempre debitrice nei confronti di una Storia che ha già indagato l’indagabile e prodotto il producibile. E così ha proseguito, mostra dopo mostra, serie dopo serie, a prendere le dovute distanze dal quadro, a frapporre tra se e la pittura elementi di disturbo, invocando, sempre, l’equilibrio di una visione lucida, disincantata, svincolata dalla prigione dell’ego. Per non rovinare nel naufragio di una pittura irrazionale, compiaciuta, ma nondimeno ladra d’immagini fotografiche, Zucchi ha dovuto imbrigliare i suoi soggetti nelle maglie strette di una gabbia visiva, di un tessuto cartesiano di linee incrociate di demarcazione.
In passato, simulando i disturbi visivi dell’immagine digitale – si pensi soprattutto ai Quadri Polari – l’artista è giunto perfino a restituirci l’idea di una Natura intrappolata nei confini di un display. Ma lo ha fatto senza mai rinunciare al piacere della pittura, a quel silenzioso coito tra colore e materia, che strato dopo strato, si erige sul digesto di un’immagine rinnovata.
Per sua stessa ammissione, Zucchi si serve d’immagini fotografiche rubate ai libri e alle riviste, dove sceglie quelle che più colpiscono la sua immaginazione per poi mescolarle, obbligandole ad una coesistenza coatta, condannandole ad una hybris innaturale e costringendo, infine, lo spettatore a ipotizzare improbabili trait d’union, sulla scorta di presunte associazioni mentali o di fantomatiche congiunzioni di significati opposti.
Eppure, la ricerca di Andrea Zucchi non si abbevera alle fonti del Surrealismo, tanto meno quello di matrice psicanalitica, ma piuttosto del Dadaismo, con i suoi nonsense creativi e i suoi recuperi dis-funzionali.
Quella di Zucchi, infatti, è una pittura ready made, che attinge all’immenso serbatoio iconografico della modernità, ad un patrimonio d’immagini pronte all’uso, che attendono solo di essere trasformate, mistificate, riportate a una nuova vita.
In sostanza, Zucchi fa con la pittura, quello che un DJ fa con la musica: mentre questo campiona brani musicali per produrre un nuovo sound, il nostro recupera immagini preesistenti per fabbricare un nuovo stile.
Per entrambi l’arte è una questione di riletture, un’evocazione di fantasmi, ma anche una possibilità di operare con risorse facilmente reperibili.
Zucchi, però, ha un rispetto profondo della storia dell’arte occidentale e delle sue progressive conquiste. Egli vuole recuperare la tradizione pittorica occidentale basata sull’osservazione e la mimesi del reale, ma allo stesso tempo, è consapevole che la realtà, oggi, è composta anche dall’infinità d’immagini che ci circondano. “Certo, per molti versi il mio lavoro nasce da un’appropriazione indebita, – scrive l’artista nelle sue note – ma in cuor mio trovo ormai, con tutti i talenti creativi attualmente in circolazione, quasi fastidiosa e inutilmente prolissa la possibilità di generare nuove forme o immagini. Preferisco così sforzarmi, attraverso la pittura, di dare una diversa risonanza a quelle che già esistono…”.
Nel momento stesso in cui un’immagine fotografica viene trasposta sulla tela, soprattutto se è dipinta – come fa Zucchi – con una materia pittorica ricca e stratificata, essa perde i suoi connotati originari.
La pittura, talvolta, ha il potere metamorfico di cambiare il segno dell’immagine e di trasfondere nuova energia sulle rovine di un’iconografia logora.
Nella serie intitolata White lines, Zucchi torna alle sue ossessioni visive, concentrandosi sulla definizione di un solo soggetto e accantonando, per un momento, quella magia combinatoria, fatta di arditi accostamenti visivi e di stranianti giustapposizioni, che in fondo è sempre stata una delle prerogative del suo stile.
Alcune sue nuove opere, da Studio di raffineria (2005) a Piramidi di Meroe (2005), riprendono particolari di lavori precedenti come Composizione con armatura ed acaro (2003), recentemente esposta all’anteprima torinese della Quadriennale di Roma, o Piramidi di Meroe e pinguini(2004), in mostra alla sua ultima personale milanese. Altre, come Studio di elefanti in movimento (2005) e Studio di bucero, ripercorrono il filone dell’esotica fascinazione per il mondo animale, già presente nelle glaciali suggestioni dei Quadri polari.
Cupe e immerse in un’atmosfera d’inquieta sospensione, sono le immagini di Lady Lyndon (2005) e de Il chirurgo nero (2005), insieme alla vanitas di un Dettaglio da Caravaggio (2005), mentre finalmente leggere fluttuano le azzurre visioni dello Studio d’astronauta (2005) e dell’Atollo di Kayangel (2005).
In queste nuove opere, Zucchi ricorre ancora ad uno stratagemma visivo per allontanarsi dalla nudità del dipinto. Questa volta, però, la gabbia si assottiglia, si riduce ad una fine maglia di linee orizzontali o verticali, che quasi lasciano l’immagine intatta.
Forse Zucchi non si è accorto che qualcosa sta cambiando, che una tensione si sta allentando. Le tele non sono più ingombre di figure, anzi, queste ultime si stagliano solitarie sulla superficie del quadro, come se l’artista volesse verificarne la forza e l’autonomia. Forse si è dissolta anche la soggezione nei confronti dei grandi maestri del passato, dal momento che si possono campionare brani di pitture di Michelangelo e Caravaggio.
“Il grande pittore – scriveva Jean Clair – non è colui che, come uno schiavo, obbedisce agli ordini del tempo, ma al contrario colui che non accorda alcuna importanza a ciò che fu o sarà”[2].
Sì, c’è voluto del tempo, c’è stato un lungo percorso, doloroso e affascinante, ma ora qualcosa si è sciolto nella pittura di Andrea Zucchi.
E adesso fluttua nelle acque del presente, come il neonato di un suo dipinto.
[1] Gilles Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, pag. 106, a cura di Ubaldo Ladini, 2002, Ombre corte, Verona.
[2] Jean Clair, Critica della modernità, pag. 35, 1984, Umberto Allemandi & C., Torino.