Marco Meneguzzo, Nel flusso delle immagini, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Obraz, Milano.
Il caso è un avvenimento che l’uomo difficilmente sopporta. Ne sanno qualcosa i creatori di miti, gli astrologi, gli psicanalisti.
Così, quando due o più immagini, lontanissime tra di loro, sono forzatamente accostate e costrette a convivere su una tela, l’una accanto all’altra, non possiamo non innescare il meccanismo mentale che cerca le relazioni possibili tra quelle due immagini: il caso puro e semplice, quello della poesia dadaista formata dalle parole estratte a sorte da un cappello, è insopportabile, tanto che anche in quel caso – della poesia, appunto – le parole e le frasi formate in quel modo assumevano un significato che all’interno del cappello non avevano.
Così agiscono anche le immagini di Andrea Zucchi.
Naturalmente, la prima tentazione è quella di scoprire il mistero chiedendo direttamente all’autore il motivo di una scelta, ma le parole di Zucchi non aiutano a scoprirlo: egli appare sinceramente imbarazzato di fronte a una domanda che sembra non essersi mai posto. “Sono affascinato da certe immagini – dice – e me ne approprio. Non so perché le accosto…”.
Ora, di fronte a una dichiarazione così disarmante, le possibilità di indagine intravedono due strade, non sempre opposte ma certo abbastanza separate: il percorso psicologico e quello linguistico, formale, strutturale.
Perché affrontare l’immagine di un acaro ingrandito migliaia di volte al Guggenheim di Bilbao? O un microrganismo marino alla nube sollevata dal crollo delle Twin Towers? O una divinità indù a un impianto di raffinazione di gas naturali?…
Il percorso della psicologia dovrebbe addentrarsi nella soggettività di Zucchi, a scoprirne preferenze, pulsioni, suggestioni, storie individuali e personalissime dietro l’apparente casualità delle scelte… ma, alla fine, a noi cosa importa? L’opera è lì, e il cordone ombelicale con l’autore è stato reciso.
Semmai, ciò che interessa – al di là delle “nostre” pulsioni che, di fronte alle opere di Zucchi ce ne fanno preferire una piuttosto di un’altra perché, che so, ci piacciono i fenicotteri o la civiltà egizia, mentre ci fanno orrore gli insetti e le dissezioni anatomiche… – è l’organizzazione delle immagini “casuali” in un sistema compositivo che appare intuitivamente, emotivamente coerente.
La prima ipotesi – come si è accennato sopra – è che le immagini, alla fine, casuali non siano, ma posseggano relazioni nascoste, non immediatamente visibili. Eccone alcune: l’antico e il moderno; la natura e la cultura, unite dalla violenza…oppure ancora, scendendo nel particolare, nelle opere di Zucchi c’è una singolare presenza di figure “catafratte”, ricoperte di una corazza, o da una maschera protettiva contro l’esterno – reale e metaforico -, che vanno dal carapace invisibile degli insetti più piccoli, alle armature cinquecentesche o ai camici per la guerra batteriologica o ai burka afgani o alla maschera di Tutankhamon, per arrivare alla copertura in titanio di Frank O’ Gehry per Bilbao.
E tuttavia, questo in fondo fa parte di quello che abbiamo definito aspetto psicologico del lavoro, che naturalmente sfiora anche i nostri caratteri, le nostre storie, ma che non è sufficiente a “tenere insieme” le parti della composizione…
Poco sopra si è ricordato un famoso esperimento dadaista; qualcuno – Mimmo Di Marzio – in un testo recente ha parlato per Zucchi di atteggiamento surrealista nell’accostamento delle immagini: può dunque essere il “nonsense” il senso di questa giustapposizione di immagini?
Non credo.
Perché il “nonsense” abbia senso (ci si scusi il gioco di parole…) è necessario che il confine tra gruppi di parole o di immagini dotate di coerenza sia ben codificato e distinto da quelli che non lo hanno, e se al momento della grande risata dadaista o della pignola lezione introspettiva surrealista questo confine era ben delineato, oggi non lo è più. Ecco allora che quelle citazioni possono servire solo come lontane similitudini, fatte per non sentirsi completamente spaesati in un contesto nuovo, ma nulla più. Di fatto, il “nonsense”, oggi, non ha senso, perché la quantità di immagini che ci viene giornalmente proposta è incommensurabile, e impossibile ad essere organizzata. Ecco allora che forse è più attuale e corrispondente alla situazione di fatto, parlare di “flusso”, che è termine neutro, come neutra (!) può essere l’indifferenza con cui guardiamo a tutte le immagini, sia che dietro ad esse si celi una strage terrorista o l’ultima fiction tv.
Zucchi, come tutti noi, vive in questo flusso di immagini, e allora acquista significato quella dichiarazione di “non-scelta” delle immagini o, meglio, di scelta dettata da motivi che egli stesso non si preoccupa di indagare. Semmai, ciò che tiene unite quelle immagini così distanti è quella sorta di “tessuto connettivo” colorato, costituito da quei segmenti astratti, da quella specie di “disturbo elettronico” formato da rettangoli che si sovrappongono all’immagine, o da quel “riempitivo” decorativo che riconduce alla serialità del rettangolo della tela immagini dimensionalmente differenti.
Come accade in un rotocalco, è il pattern disegnato, è la grafica che induce l’occhio e poi la mente a collegare le immagini, a “mettere la cornice” a un gruppo di figure, altrimenti passibili di trascolorare senza traumi nel servizio successivo. Allo stesso modo, quell’aspetto apparentemente marginale del lavoro di Zucchi, che è il contorno grafico delle sue immagini, acquista una dignità pari, se non superiore a quella dell’immagine vera e propria. Quello è il “continuum” dell’opera, mentre l’immagine, per quanto più evidente e in primo piano, potrebbe addirittura essere intercambiabile.
Così, il quadro diventa paradossalmente una “cornice” di se stesso. Serve a inverare le immagini scelte, (quasi) esattamente come avviene nel supplemento del Corriere. Con una differenza, non solo tecnica ma anche etica. Che la pittura dura molto, molto di più.