Cristina Ruffoni, Il confine incandescente tra visibile ed invisibile. Intervista ad Andrea Zucchi
Nell’ambito della fatale, sotterranea attrazione e ormai accettato ritorno della pittura, le strade percorse sono state principalmente due: quella del recupero e utilizzo di immagini digitali o fotografiche, riproposte in chiave pittorica e quella del disfacimento della forma, espressa in chiave astratta e informale. Indipendentemente dalla consapevolezza generale o dalla libertà individuale, l’anarchia istituzionalizzata e i percorsi alternativi sono ormai una realtà. Uno dei più grandi artisti di oggi, Gerhard Richter, cambia infatti genere e stile ed attinge continuamente dalla Storia dell’Arte: le sue composizioni sono generalmente fotografie, immerse e deturpate dal pigmento del colore.
Per comprendere invece il lavoro artistico di Andrea Zucchi, bisogna partire dalle esclusioni. Lui non è un freddo pittore concettuale, non un è tardo manierista classicheggiante, non è un asettico figurativo pop e neppure un espressionista selvaggio con derive Pulp. Come Alberto Burri, che si schermiva quando lo definivano un artista e voleva essere chiamato pittore, Andrea Zucchi ha sempre privilegiato lo strumento pittorico, che nel tempo si è prestato a diverse interpretazioni, determinate dal libero uso dell’iconografia.
Andrea Zucchi, sempre attratto dalla realtà, senza privilegiare quella naturale o artificiale, ha attinto e conservato nel suo archivio personale una moltitudine di immagini, un repertorio senza limiti, per allestire e strutturare il palcoscenico delle sue composizioni. L’accostamento alla metafisica di De Chirico, perfino il riferimento al prelievo e spaesamento duchampiano, erano previsti ed inevitabili. Ma è con il colore e il modo di dipingere che Zucchi è riuscito a conservare una propria autonomia espressiva e preservare una ricerca pittorica autonoma rispetto ai consueti percorsi.
Lo spettatore può essere, come in passato, distratto dalla varietà irrazionale o esotica dei soggetti dei quadri di Zucchi, ma è la tecnica espressiva, non certo per un compiacimento fine a se stesso o per virtuosismo tecnico, a fornire una precisa identità e una chiave interpretativa.
I suoi ultimi lavori, in particolare, sono una conferma di questo continuo orientamento. Andrea Zucchi, rinuncia e si libera dal meccanismo dell’accostamento, utilizzando scene e composizioni fotografiche del passato. Interviene poi con i colori psichedelici e fluorescenti, in grado di sganciare gli interni ottocenteschi alla Manet e le vedute romantiche da un contesto spaziotemporale, per catapultarsi in una visione a metà strada tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Blade Runner. Ma è con i contenitori e gli imballaggi, ispirati ad Arp, che Andrea Zucchi ribadisce la potenza espressiva, tridimensionale e costruttiva del colore, che s’immedesima e risulta un tutt’uno con la materia. La più sorprendente invenzione di Arp sono senza dubbio i rilievi. Le superfici delle morbide scatole di Zucchi sono anch’esse dipinte, in blu, giallo, rosso, bianco e nero, spazi, che così colorati, risultano essere scansioni, prolungamenti, piani rialzati, si modificano e perdono la loro staticità espressiva e formale. Non ci sono più il disegno e l’immagine a strutturare la composizione, ma solo la materia grezza e il colore denso, che gioca con la forma e vuole “liberare” l’immaginazione, come Arp aveva tentato di purificarla.
In ogni stanza universale dei giochi, oltre alle scatole variopinte come caramelle e agli album da colorare con i pennarelli, non possono mancare i panneggi multicolori, solidi come grotte ma leggeri e apparentemente modificabili, simili alle tende e alle coperte, che si prestano a qualunque recita e trasformazione. Dal quadro, Andrea Zucchi, con leggerezza ed ironia, passa alla scultura fino all’installazione, senza interruzioni o strappi. L’icona è posta sul confine, sulla soglia incandescente tra visibile e invisibile.
L’immagine si pone sul confine, sulla soglia tra visibile e invisibile. Malevic con il suo quadrato nero ipotizza il “mondo senza oggetti”. I tuoi lavori, che sono contenitori usati, non sono sculture tradizionali e neppure classici quadri. Superfici flessibili e logore, che subiscono il trattamento del colore, che stabilisce l’indeterminatezza oggettuale e lascia emergere l’autentica vitalità. Qual è la differenza d’intervenire sulla tela liscia bianca, rispetto a queste forme definite del campo pittorico?
Con la serie degli “Imballaggi” ho lasciato riaffiorare in maniera anche per me abbastanza imprevista, il substrato modernista e dadaista che è all’origine della mia formazione. Paradossalmente il ready-made è la forma più esplicita di realismo che si può raggiungere, mentre lo spazio neutro della tela bianca continua forse a rimanere il ricettacolo più puro per qualsivoglia concetto. Utilizzando un objet-trouvé come supporto tridimensionale per una composizione astratta non crei nulla, ma selezioni e fai emergere delle forme già contenute in potenza nell’oggetto. Non è poi così lontano dal metodo che consigliava Leonardo di sfruttare le macchie sui muri per i disegni o di Michelangelo di liberare le forme racchiuse nei blocchi di marmo…
Come tratti il colore e gli effetti provocati nei quadri precedenti, ricordano alcune superfici dei mondi sommersi e delle spugne lunari di Max Ernst. Materia organica che si auto riproduce, mischiata ai relitti e alle carcasse di epoche remote. I colori attuali, trasformano invece le immagini citate in rappresentazioni virtuali, apparse dietro un monitor e filtrate dall’effetto video. La luce naturale non è prevista e tutto è sospeso, trattenuto, ma proprio per questo esaltato. Ancora una volta, non sono i soggetti scelti ma il modo in cui li dipingi a determinarne l’identità?
I soggetti e la maniera di dipingerli per me si sviluppano in parallelo. Non credo alla neutralità del soggetto, anche se naturalmente la forza di un lavoro risiede nel modo in cui lo si realizza. Spesso scelgo un tema specifico perché nel mio intento si presta bene ad un certo tipo di trattamento pittorico e non è detto che funzioni per tutto.
La Storia dell’Arte è sempre più una fonte inesauribile d’ispirazione e di riflessione per gli artisti, anche se la spettacolarità, sposta l’interesse verso l’aspetto formale, piuttosto che concentrarsi nei contenuti. Come riesci a conciliare studio del passato, approfondimento dei significati e innovazione visiva nella tua ricerca?
Rileggere il passato è sempre un modo per indagare se stessi e il nostro presente, e spesso può divenire più innovativo e rivelatore di trovate magari nuove ma prive di radici e senza spessore. Non a caso la parola “rivoluzione” implica nella sua etimologia un ritorno alle origini, al punto di partenza da cui un moto ha avuto inizio. Nel Rinascimento gli artisti tornarono ad osservare l’arte greca e romana, all’inizio del novecento quella africana e primitiva.
Le superfici di alcuni rilievi dipinti da Jean Arp risultano logore e arrugginite, aumentando il senso della precarietà di un gioco o di un frammento trovato per caso. Per lui l’arte è il proseguimento delle dinamiche creative infantili: immaginazione e creazione si equivalgono. Nei tuoi ultimi lavori,le “scatole misteriose”, le “cartoline fluorescenti” e i panneggi solidi, le componenti ironica e ludica si esprimono liberamente, sempre con un sottofondo decadente, che echeggia al Sublime. Tutto questo è parte della tua indole o pianificato freddamente a tavolino?
La vita ci trasforma continuamente, facendoci maturare e/o “rincoglionire”, ma non dobbiamo lasciar spegnere i fuochi dell’immaginazione che hanno acceso la nostra infanzia e adolescenza. La radice di ogni creazione autentica parte e si sviluppa da quei nuclei interiori, come l’ostrica che ricopre di sostanza perlacea il granello di sabbia penetrato al suo interno.
Nell’era della globalizzazione, il compito dell’artista è di essere testimone, anticipando i cambiamenti visivi in atto, oppure deve sottrarsi dalla mischia per mantenere un’autonomia e un’indipendenza creativa?
Un buon artista recepisce prima degli altri i cambiamenti in atto e cerca di dargli una forma che spesso non è immediatamente comprensibile. Può essere isolato o parte della mischia, ma non può essere totalmente assorbito dalle convenzioni del suo tempo. Deve avere un elemento di sfasatura rispetto al punto di vista del presente, o in avanti o all’indietro.Come osserva mirabilmente Agamben “Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.”
Il tuo rapporto con l’architettura, la natura e la geografia, si traduce in una struttura compositiva, che di volta in volta elabora nuovi scenari integrati a testimonianze urbane e monumentali, con tocchi esasperati di folclore e tradizioni visive. Passato e presente, realtà ed artificio, sacralità e paganesimo, atrocità e bellezza si mischiano e creano nuove iconografie inedite nelle tue opere. Non hai mai pensato di progettare un video o una storia di sequenze visive e sonore?
Troppo tecnologico e complicato per i miei gusti e le mie capacità, anche se si presterebbe bene al miscuglio di soggetti e realtà diverse che sono alla base del mio lavoro. Inoltre più si usa la tecnologia, più un’opera diventa obsoleta e datata. La pittura, invece, con il tempo spesso accresce di potenza.
L’artista italiano non è sorretto dal sistema delle gallerie, ormai obsoleto e stantio e neppure a livello istituzionale. Pensi che si debba riaprire il dialogo e il dibattito come propone l’associazione ZONE, connettendo ambiti e riscoprendo competenze?
Forse ne vale la pena, ma personalmente sono rassegnato al mio isolamento e mi sento sempre più estraneo e lontano dal mondo dell’arte contemporanea.
Ci sono alcuni tuoi lavori molto elaborati, eseguiti solo con la penna blu, come aveva fatto Alighiero Boetti. Questo procedimento può dimostrare che puoi dare significato e peso alla materia, sia attraverso i colori ad olio ma anche con il tratto, dando un effetto monocromatico molto intenso. Ha ancora senso oggi saper dipingere e avere competenze tecniche e manuali, oltre che digitali, o si può delegare ad artigiani e tecnici specializzati, come hanno fanno alcuni scultori, che si limitano solo al progetto iniziale di un’opera?
Non sono a priori contrario all’uso di tecnici o assistenti, ma la grande arte ha sempre una vibrazione individuale che scaturisce dalla maestria e dalla sensibilità dell’autore. Bernini poteva avere mille assistenti ma la vitalità tattile delle sue statue veniva solo da lui. L’opera di Cattelan in Piazza Affari la trovo molto azzeccata, ma se la guardi come scultura in se non ha nessun valore plastico. Una realizzazione anonima da bottega di Massa Carrara.
A un giovane artista, che vuole avventurarsi nel groviglio intricato e ambiguo del sistema dell’Arte, dopo l’Accademia, cosa consigli? Cogliere le tensioni di un cambiamento ipotetico in atto o preferire la fuga all’estero? Come alternativa, fare esperienza in altri ambiti professionali e creativi?
L’ultima cosa che consiglierei a chiunque è d’intraprendere il mestiere di artista. Chi segue questa strada va scoraggiato in tutti i modi. Se poi uno vorrà veramente seguire la chiamata delle Muse dovrà trovare da sé la sua via.