2005 Andrea Zucchi, Tuttavia qualcosa non quadra, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Galleria Annovi, Sassuolo (Modena)
Con il diffondersi della fotografia la funzione rappresentativa della pittura è entrata progressivamente in decadenza e i pittori ritenuti più innovativi si sono allontanati rapidamente dal quel territorio d’indagine, così efficacemente invaso dalle macchine fotografiche, per diversificare ed enfatizzare i tratti specifici del medium pittorico.
Il confronto fra queste due tecniche è stato nondimeno incessante e l’utilizzo d’immagini fotografiche in pittura, soprattutto negli ultimi decenni, è diventata una tendenza ampiamente diffusa in molteplici varianti. Come pittore, anch’io mi trovo avvinto da questa pratica ambigua, seducente e pericolosa, come il canto delle sirene. Senza astuzie sottili, seguendo quel canto si naufraga nel piatto mare della copia. Per quale ragione allora continuo a perseguire questa rotta, peraltro ormai così noiosamente battuta? Perché è più facile? Non saprei fare altro di meglio? Potrebbero anche essere risposte vere, ma per me non è lì il punto.
Nella tradizione pittorica occidentale, fondata sull’osservazione della natura e lo studio dei maestri, ogni forma di visione, dopo essere stata esplorata in una vasta gamma di sfumature, genera per saturazione il bisogno d’ulteriori e nuovi stimoli. Questo continuo impulso al rinnovamento del linguaggio pittorico non procede però in maniera lineare, ma con flussi e riflussi di vario genere, che riattivano talvolta stilemi e suggestioni d’altre epoche e culture. L’Arte si nutre principalmente d’altra Arte, ma, parafrasando Eraclito, non ci si può immergere due volte nello stesso stile. Per non stagnare in sterili ripetizioni le correnti stilistiche devono trasformarsi, contaminarsi e rinascere sotto nuove forme. Poiché schiere d’epigoni continuano oggi a proporre, con parvenze di novità, questioni delineate dalle avanguardie del secolo scorso, trovo ormai più coinvolgente riaffrontare temi della rappresentazione realista, con tutti i rischi di fallimento che questo comporta. Sempre più avverto il bisogno di conquistare un equilibrio senza enfasi, una meditata compostezza, che appartiene in modo esemplare allo spirito, ormai a noi alieno, del Classicismo. Con umiltà, distacco e senza nostalgie, torno a guardare a Tiziano, Velázquez e Rembrandt, su su sino a Manet e Degas, come se osservassi dell’arte egizia o etrusca. E gli impulsi che ricevo da quei sobri, ricchi e strutturati linguaggi sono ancora straordinariamente intensi, vitali e assolutamente moderni. Più che se guardassi ai gerghi, fugaci e spesso già datati, che si sono succeduti negli ultimi decenni.
Una gamma vastissima d’esperienze e di modalità espressive si apre così davanti a chi ancora voglia praticare la pittura. Come molti, o forse pochi, non si sa, desidero dipingere quello che vedo, perché proiettando ciò che penso di vedere, definisco e amplifico le mie sensazioni.
Guardo quindi fuori di me alla ricerca d’un soggetto, e la mia attenzione cade prevalentemente, ripetutamente, e molto banalmente, sulla massa immensa d’immagini e sul flusso d’informazioni visive che mi circonda. Scelgo, o mi ritrovo a fare, una pittura che sgorga dall’osservazione della fotografia perché essa riempie ed invade il mio orizzonte visivo, con frammenti di realtà che m’affascinano e mi catturano. Non è la fotografia in sé ad attrarmi, ma l’infinita molteplicità di soggetti che essa veicola. Può trattarsi d’un tricheco o d’un acaro, delle rovine di Machu Picchu o d’un iceberg, d’un astronauta o d’un sacerdote scintoista. Certo, per molti versi il mio lavoro nasce da un’appropriazione indebita, ma in cuor mio trovo ormai, con tutti i talenti creativi attualmente in circolazione, quasi fastidioso e inutilmente prolisso il bisogno di generare ulteriori forme o immagini. Preferisco sforzarmi, attraverso la pittura, di dare una diversa risonanza a quelle che già esistono, poiché per me è in quello scarto di linguaggio, in quell’opera di trasmutazione, che si gioca tutto, e che la pittura può manifestare la sua differenza e la sua capacità d’intensificare la nostra percezione.
Una fotografia efficace può imprimersi a fondo nella coscienza, ma un buon dipinto, anche solo per un istante, può assorbiree placare il flusso di coscienza. Una foto può essere ammirata, un quadro può essere contemplato.La pittura, quella ad olio in particolare, è un’arte sottilmente tridimensionale, che prende forma depositando e stratificando materia colorata su un supporto. E questa materia, bella, ricettiva e sensibile, è in grado di registrare in maniera talvolta estremamente efficace, le tracce dell’energia emotiva e dell’intensità d’anima e di pensiero con cui è stata plasmata.
Torno così a guardare alla grande pittura europea, che riconosce nello studio della natura il fondamento del suo operare, a partire però dalla pietra angolare dell’arte contemporanea che è il ready-made, e così mi approprio non d’un oggetto ma d’un immagine esistente.
Ma nel quadro che realizzo, anche se fosse dipinto molto, molto meglio, e non è dipinto male, tuttavia qualcosa… non quadra. Quel linguaggio, sebbene ormai estraneo alla modernità, è ancora troppo vicino, troppo saturo d’implicazioni, e non può essere riesumato in maniera innocente. Quel linguaggio è ancora una sorta di cadavere in putrefazione, e riportarlo in vita è un’operazione che alla fine suscita in me disgusto, ma anche attrazione morbosa.
Ho generato il mio quadro-frankenstein e ora non so che farne. Non riesco a distruggerlo perché, a suo modo, quel quadro è vivo. Eppure non posso accettarlo cosi com’è. Ho bisogno di un filtro per poterlo guardare e valutare con distacco.
Lo devo allontanare, lo devo isolare, lo devo imprigionare.
Lo lascio vivere, ma in una gabbia.
Una gabbia di sottili linee bianche.